AS Roma

De Rossi, sempre e per sempre

Dall’esordio nel 2001 al saluto del 2019, DDR ha impersonato il romanismo. Grinta, orgoglio, appartenenza, spirito di sacrificio: il suo modo di giocare ci ha ricordato chi siamo

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Lorenzo Latini
29 Dicembre 2025 - 07:30

In uno dei suoi capolavori, Stephen King scrisse che «le cose più importanti sono le più difficili da dire», perché le parole immiseriscono e finiscono per ridurre sentimenti che all’interno del cuore sono infiniti e - probabilmente - inspiegabili. Ed è esattamente ciò che sperimenta il tifoso romanista quando è chiamato a descrivere il suo legame con Daniele De Rossi, che oggi - per la prima volta - entrerà all’Olimpico da avversario (ma mai, mai da nemico). Perché DDR è stato letteralmente la Roma in campo nell’arco dei diciotto anni di carriera da calciatore; e lo è stato per qualche mese anche da allenatore, prima che una scelta scellerata e affrettata lo mettesse alla porta come uno qualunque.

Il De Rossi calciatore, però, è stato - ancor più del De Rossi tecnico - simbolo di tutto ciò che è il romanismo: sudore, sangue, lacrime (di gioia e di dolore), tackle, rincorse, sofferenze, esultanze sfrenate. Daniele ha mostrato quel rapporto viscerale che neppure Giannini, Totti e Bruno Conti hanno mai esplicitato; forse, in questo senso, Agostino è stato il più simile a lui. Da quell’esordio in Champions League, con il tricolore sul petto, a quel saluto commosso sotto la Curva Sud, in ginocchio, sulle note di Sempre e per sempre di De Gregori, DDR  ci ha rappresentato e - quasi come uno specchio - ci ha mostrato chi siamo davvero. Per questo risulta difficile parlare di lui al passato, nonostante abbia appeso gli scarpini al chiodo ormai da cinque anni: perché l’esempio che ci ha dato in campo continua a farci da stella polare, e probabilmente questo non cambierà mai.

«Daje Roma daje!»

Impossibile sintetizzare e raccontare in poche righe cosa Daniele De Rossi abbia rappresentato - e rappresenti tuttora - per i romanisti: sarebbe come cercare di riassumere in poche righe la Divina Commedia. Meglio affidarsi ad alcune istantanee, ben chiare nella mente del tifoso: dalla gioia bambinesca dopo quel primo gol al Torino (Roma-Torino 3-1, per uno nato nel 1983, significa più o meno tutto) a quella sfrenata, “hulkiana”, con tanto di maglia strappata, sotto la Sud in Roma-Inter 3-3 del 2004. In quest’ultima circostanza si vedono i primi sprazzi di quella vena che pompa romanismo tra cuore e cervello, in un continuo interscambio che non conosce soste. Gli anni della consacrazione con Spalletti fotografati da quel gol a San Siro che il 19 agosto 2007 ci regala la Supercoppa Italiana, gentile concessione - con responsabilità annessa - di Francesco Totti. Quel Totti che è più di un amico, più di un compagno: un fratello maggiore, sotto l’ala del quale Daniele è cresciuto e s’è fatto uomo e campione. Gli è mancato lo Scudetto, soltanto sfiorato in un paio di circostanze, ma quel gran gol al Bentegodi - con annessa esultanza - nel giorno del «Chi tifa Roma non perde mai!» è una firma che non può passare inosservata. Perché assieme a lui abbiamo avuto «Voglia di stringersi un po’» e ci siamo resi conto che non siamo e non saremo «Mai schiavi del risultato!». 

Con lui a guidarci abbiamo demolito il Barcellona dei marziani e raggiunto una semifinale di Champions League. Con lui abbiamo festeggiato sotto la Sud i derby vinti, con lui abbiamo masticato amaro per quelli persi. Con lui abbiamo urlato «daje Roma daje!» rischiando di giocarci le coronarie e con lui abbiamo capito, una volta per tutte, che «il vero amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai».

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