De Rossi, sempre e per sempre
Dall’esordio nel 2001 al saluto del 2019, DDR ha impersonato il romanismo. Grinta, orgoglio, appartenenza, spirito di sacrificio: il suo modo di giocare ci ha ricordato chi siamo
(GETTY IMAGES)
In uno dei suoi capolavori, Stephen King scrisse che «le cose più importanti sono le più difficili da dire», perché le parole immiseriscono e finiscono per ridurre sentimenti che all’interno del cuore sono infiniti e - probabilmente - inspiegabili. Ed è esattamente ciò che sperimenta il tifoso romanista quando è chiamato a descrivere il suo legame con Daniele De Rossi, che oggi - per la prima volta - entrerà all’Olimpico da avversario (ma mai, mai da nemico). Perché DDR è stato letteralmente la Roma in campo nell’arco dei diciotto anni di carriera da calciatore; e lo è stato per qualche mese anche da allenatore, prima che una scelta scellerata e affrettata lo mettesse alla porta come uno qualunque.
Il De Rossi calciatore, però, è stato - ancor più del De Rossi tecnico - simbolo di tutto ciò che è il romanismo: sudore, sangue, lacrime (di gioia e di dolore), tackle, rincorse, sofferenze, esultanze sfrenate. Daniele ha mostrato quel rapporto viscerale che neppure Giannini, Totti e Bruno Conti hanno mai esplicitato; forse, in questo senso, Agostino è stato il più simile a lui. Da quell’esordio in Champions League, con il tricolore sul petto, a quel saluto commosso sotto la Curva Sud, in ginocchio, sulle note di Sempre e per sempre di De Gregori, DDR ci ha rappresentato e - quasi come uno specchio - ci ha mostrato chi siamo davvero. Per questo risulta difficile parlare di lui al passato, nonostante abbia appeso gli scarpini al chiodo ormai da cinque anni: perché l’esempio che ci ha dato in campo continua a farci da stella polare, e probabilmente questo non cambierà mai.
«Daje Roma daje!»
Impossibile sintetizzare e raccontare in poche righe cosa Daniele De Rossi abbia rappresentato - e rappresenti tuttora - per i romanisti: sarebbe come cercare di riassumere in poche righe la Divina Commedia. Meglio affidarsi ad alcune istantanee, ben chiare nella mente del tifoso: dalla gioia bambinesca dopo quel primo gol al Torino (Roma-Torino 3-1, per uno nato nel 1983, significa più o meno tutto) a quella sfrenata, “hulkiana”, con tanto di maglia strappata, sotto la Sud in Roma-Inter 3-3 del 2004. In quest’ultima circostanza si vedono i primi sprazzi di quella vena che pompa romanismo tra cuore e cervello, in un continuo interscambio che non conosce soste. Gli anni della consacrazione con Spalletti fotografati da quel gol a San Siro che il 19 agosto 2007 ci regala la Supercoppa Italiana, gentile concessione - con responsabilità annessa - di Francesco Totti. Quel Totti che è più di un amico, più di un compagno: un fratello maggiore, sotto l’ala del quale Daniele è cresciuto e s’è fatto uomo e campione. Gli è mancato lo Scudetto, soltanto sfiorato in un paio di circostanze, ma quel gran gol al Bentegodi - con annessa esultanza - nel giorno del «Chi tifa Roma non perde mai!» è una firma che non può passare inosservata. Perché assieme a lui abbiamo avuto «Voglia di stringersi un po’» e ci siamo resi conto che non siamo e non saremo «Mai schiavi del risultato!».
Con lui a guidarci abbiamo demolito il Barcellona dei marziani e raggiunto una semifinale di Champions League. Con lui abbiamo festeggiato sotto la Sud i derby vinti, con lui abbiamo masticato amaro per quelli persi. Con lui abbiamo urlato «daje Roma daje!» rischiando di giocarci le coronarie e con lui abbiamo capito, una volta per tutte, che «il vero amore può nascondersi, confondersi, ma non può perdersi mai».
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