C’è del calcio in Danimarca per la Roma
In cinque dal profondo Nord nella nostra storia Pochi picchi: Bronée l’apripista, Nelsson l’ultimo, per ora
(GETTY IMAGES)
C’è del calcio (anche) in Danimarca. Un po’ prima di quello reso globale dall’avvento di pay tv e piattaforme dedicate, il mondo scopre che il Paese della Sirenetta può mettere in discussione gerarchie consolidate. L’evidenza arriva con la vittoria dell’Europeo del 1992, trovata più che cercata da una nazionale messa insieme in fretta e furia per l’esclusione della Jugoslavia dovuta a motivi geopolitici. Da quel momento nessuno sottovaluta più il football proveniente dal profondo Nord.
Klaus non è acqua
In realtà i club italiani all’epoca sono ai massimi livelli, gestiti da dirigenti in grado di scorgere potenzialità importanti ovunque si annidino, anche in anticipo sulla definitiva consacrazione. Così la Serie A è lambita dai migliori talenti danesi già dal decennio precedente al titolo continentale: Elkjaer, Laudrup e Berggreen si affermano in squadre tutt’altro che blasonate. L’ultimo è l’apripista, grazie a un’intuizione di Romeo Anconetani, che nel 1982 lo preleva dal Lingby per 270 milioni (di lire). Il presidente del Pisa lo coccola in ogni modo, Klaus ricambia diventando in breve uomo-simbolo dei neopromossi toscani e portandoli alla salvezza. L’anno successivo i miracoli restano confinati alla piazza della Torre pendente, ma la mezzala decide di restare in nerazzurro anche in B, riconducendo la squadra nella massima categoria in una sola stagione. Gli occhi delle grandi iniziano a posarsi su questo centrocampista che sa unire qualità a quantità e non disdegna il gol. Nell’estate del 1986 il Pisa – nuovamente retrocesso – si accorda col Napoli per la cessione di Berggreen a due miliardi e mezzo, ma il giocatore punta i piedi: ha già dato la sua parola a Eriksson, il tecnico che ha portato la Roma a un passo dal terzo tricolore dopo una strabiliante rimonta sfumata al fotofinish. Anconetani va su tutte le furie, ma si calma quando il collega Viola stacca per lui un assegno da ben 4 miliardi. Il danese finisce nella Capitale con un compito mica da ridere: far dimenticare Cerezo, uno degli stranieri che maggiormente ha fatto breccia nei cuori dei tifosi giallorossi, finito nel frattempo alla Sampdoria. La stagione per due terzi fila discretamente: Boniek, Conti, Giannini e compagni sembrano poter dire di nuovo la loro in chiave Scudetto, ma da marzo lo spogliatoio denota le prime crepe della gestione Eriksson, che si dimetterà prima della fine del torneo. La mancanza di vittorie nelle ultime sette giornate costa la rinuncia alle coppe europee per la prima volta da quando c’è Dino Viola alla presidenza. E l’avventura sia pure positiva di Berggreen (condita da cinque gol, fra i quali quello decisivo all’Inter e uno alla Juventus in un memorabile 3-0) termina subito. Klaus si trasferisce al Torino, dove resta un solo anno prima di tornare in patria, ancora al Lingby. Dopo una breve esperienza da direttore sportivo, l’ex centrocampista si dedica alla moda, forte anche di una laurea in Economia e della padronanza di ben cinque lingue: la sua azienda si chiama PiRo, riprendendo le iniziali delle due squadre «più amate». Anche una sola stagione può bastare per legarsi a questi colori, a dispetto dei luoghi comuni sulla presunta freddezza emotiva dei nordeuropei.
In principio fu Helge
Berggreen non è però l’unico danese a vestire il giallorosso e nemmeno il primo. Una trentina d’anni abbondanti in anticipo sul suo arrivo, un altro suo connazionale compie un viaggio simile: portato in Italia da un club senza ambizioni di vertice, prelevato dalla Roma e poi finito a Torino (in questo caso sponda bianconera) è il talentuoso quanto eccentrico attaccante Helge Bronée, nella Capitale ndal 1952, dopo un’esperienza al Palermo tutta genio e sregolatezza. Il gol all’esordio, l’intesa con Galli già testata in Sicilia e la stagione conclusa con un buon piazzamento gli valgono la conferma. Prima ancora della seconda stagione, in una squadra arricchita fra gli altri dal campione del mondo Ghiggia, il danese è fra i primi a calcare il prato del neonato Olimpico, il 13 maggio 1953, nell’amichevole fra titolari e riserve della Roma (in cui sigla una doppietta); e a disputare la prima gara dei giallorossi nel nuovo impianto, il 31 maggio contro la Spal. Sarà suo anche il primo gol romanista visto in tv, il 3 gennaio 1954 al Bologna. In società chiudono un occhio sulla sua passione per la dolce vita romana, ma quando gli eccessi fuori dal campo fanno il paio con quelli nello spogliatoio (dove colpisce con una scarpata al volto un dirigente dopo una lite con Venturi), multe, sospensioni e conseguente addio diventano inevitabili.
Il terzo millennio
Per vedere nella Roma un numero (leggermente) più cospicuo di giocatori provenienti dalla Danimarca bisogna attendere il terzo millennio, più precisamente l’inizio dell’era americana ai vertici del club. Nel 2011 è Simon Kjaer a riportare nella Capitale lo stampo vichingo. Il centrale classe 1989 è considerato uno degli enfant prodige della sua generazione: sbocciato proprio nel Midtjylland, al suo arrivo ha già disputato un Mondiale, è stato nominato calciatore danese dell’anno appena ventenne e inserito da Don Balon nella lista dei migliori under 21 del mondo. Il ds romanista Sabatini si è infatuato delle sue qualità durante la comune parentesi palermitana e ottiene dal Wolfsburg – proprietario del cartellino – il prestito oneroso a condizioni che lasciano presagire un pressoché sicuro successivo riscatto: tre milioni per una stagione. Ma la squadra guidata da Luis Enrique stenta e proprio il giovane difensore finisce spesso sul banco degli imputati, anche al di là delle effettive responsabilità personali. A maggio il tecnico si dimette, la Roma sceglie Rudi Garcia e si preannuncia un’altra rivoluzione, che stavolta punta sull’usato sicuro più che sui giovani talenti. Fra gli altri viene rispedito al mittente lo stesso Kjaer, che tornerà in Italia dopo le esperienze in Francia, Turchia e Spagna: prima all’Atalanta guidata proprio da Gasperini, nella quale stenta però a inserirsi; poi nel Milan, dove fa in tempo a laurearsi campione d’Italia e a essere inserito nella lista dei candidati al Pallone d’Oro, cogliendo un dignitosissimo diciottesimo posto. Ma è il soccorso spontaneo e immediato prestato al compagno di nazionale Eriksen, vittima di un arresto cardiaco durante Euro 2020, a valergli l’unanime stima del mondo del calcio, prima ancora dei meritati riconoscimenti ufficiali.
Gli altri due danesi che vestono il giallorosso appartengono al passato recentissimo. Il primo è Rasmus Kristensen: fisico possente, volto da duro, taglio da marine, come Kjaer cresciuto nel Midtjylland, l’esterno raggiunge la Roma nell’ultima stagione targata José Mourinho per tappare l’atavica falla della fascia destra difensiva. Ma la sua stagione è costellata da bassi più che da alti e il prestito dal Leeds non viene riscattato. Il secondo è una vera e propria meteora e risponde al nome di Victor Nelsson. Il difensore classe ‘98 arriva nell’ultimo giorno utile della sessione invernale 2025, in prestito dal Galatasaray. Ma nella squadra di Ranieri che riprende a volare fatica a trovare spazio: alla fine il suo contributo resterà limitato a 5 presenze e meno di 200 minuti complessivi. Come dire che non tutti i danesi risultano dolci.
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