L'analisi di Lazio-Roma 1-1: tante grazie a Ranieri, ma che brutto derby...
L’allenatore della Roma ha restituito dignità alla squadra, ma la partita con la Lazio avrebbe potuto essere giocata in maniera diversa

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Per prima cosa, dobbiamo metterci d’accordo: se questa rubrica deve solo analizzare la partita appena giocata non si arrabbino i puritani del Ranierismo se nelle righe successive troveranno qualche giudizio non in linea con i loro entusiastici standard. Se invece l’analisi deve essere contestualizzata al lavoro generale compiuto da Ranieri in questi quasi cinque mesi di esperienza, allora gli appassionati “giochisti” farebbero bene a chiudere qui questa esperienza di lettura, perché non troveranno di seguito il pane per i loro denti aguzzi. Il problema è che in queste pagine siamo abituati ad approfondire tutto e quindi daremo un occhio al derby di domenica sera, ma non eviteremo di considerare dove è cominciato il lavoro di Ranieri e, ovviamente, dove sta portando.
La sorpresa di Ranieri
L’analisi della partita di per sé è piuttosto semplice: la Roma è partita male ed è finita peggio, ottenendo il suo risultato solo in quegli sprazzi di metà del secondo tempo in cui si è accesa quasi a sua insaputa, solo solleticata nell’orgoglio dalla terribile prospettiva di dover lasciare l’intera posta agli avversari, annullando quasi del tutto i benefici di una magnifica rincorsa. Baroni è rimasto sulle tracce disegnate per tutto l’anno, con il suo 4231 a trazione integrale, che prevede due punte esterne, un centravanti e una sorta di seconda punta in grado di sostenere anche con un certo dinamismo la fase di non possesso, garantendo pressioni alte e profonde corse all’indietro senza far mai mancare, però, l’apporto offensivo in sostegno all’altra punta, con combinazioni veloci studiate in allenamento. Chi ha lavorato d’ingegno alla vigilia è stato invece lo staff giallorosso fino a partorire una novità sostanziale dal punto di vista tattico, non in assoluto, ma comunque sorprendente. Ignorando la bella prestazione dell’andata, che in qualche modo ha rappresentato proprio l’inizio della sua magnifica cavalcata, Ranieri ha rinunciato al 3421 puro con cui il 5 gennaio aveva regolato i biancocelesti ed ha virato sul 4231 con Celik e Angeliño sulle fasce, Mancini e Ndicka centrali, Paredes e Koné nel mezzo, Soulé a destra e Saelemaekers a sinistra con Pellegrini alle spalle di Dovbyk. Uno schieramento per sua natura offensivo che però non ha mai liberato tutto il suo potenziale perché è rimasto intrappolato troppo spesso nel timore delle possibili conseguenze delle ripartenze a ritmo intenso che la Lazio sa garantire.
Si è così concretizzato un paradosso: una Roma dalle caratteristiche spiccatamente offensive è rimasta bassa ed impaurita nella sua metà campo ad attendere gli avversari, rinunciando non solo all’idea del dominio del gioco, ma anche al minimo controllo e alla cosiddetta teoria del “colpo su colpo” tanto cara a Ranieri. È sembrata insomma la rappresentazione plastica del “vorrei ma non posso” che sta caratterizzando questi anni di gestione Friedkin, con gli indirizzi tecnici che sembrano affidati al caso o, peggio, alle emotività del momento. Così si è partiti con Mourinho, attratti dal grande nome soprattutto a livello mediatico, e lo si è esonerato nel momento massimo della sua rappresentazione, poi si è passati a De Rossi con l’idea di dover cominciare un progetto nuovo con un allenatore dalle idee decisamente aggressive salvo poi ripudiarlo alle prime difficoltà, senza averne mai capito la vera essenza, per poi andare a chiamare Juric che con la sua impostazione tattica passivo-aggressiva ha squilibrato definitivamente la psiche della squadra, fino all’approdo finale con il Normalizzatore, che però adesso, quando normalizza, non viene neanche più apprezzato. E chissà che cosa ci riserverà il futuro...
All’attacco o in difesa?
L’errore più grosso della Roma di domenica è che con quell’atteggiamento tattico avrebbe dovuto soffocare ogni manovra della Lazio, partendo da pressioni altissime fino ad accettare la parità numerica difensiva anche a costo di esporsi alle ripartenze tipiche della squadra di Baroni, e invece, temendole, ha finito per mortificare la propria anima propositiva (incarnata dalla presenza contemporanea di tutti i giocatori tecnici che erano stati assenti con la Juventus, tipo Saelemaekers, Paredes e Pellegrini) restando cauta sul terreno di gioco, con il più difensivo 442 possibile. Un ibrido, insomma. Senza trovare mai reale opposizione nella sua prima impostazione, la Lazio ha fatto la partita che voleva senza gli affanni patiti in Norvegia (e siamo sicuri che i biancocelesti troveranno molte difficoltà giovedì a completare la loro rimonta sul Bodø se non saranno attenti a capire le potenzialità offensive degli avversari) e pur senza dominare mai, forse perché in questo periodo non è neanche in grado di farlo 90 minuti, ha creato qualche sostanziale pericolo per la porta della Roma, difesa da un gigante come Svilar. Nel secondo tempo è arrivato l’episodio che da un lato avrebbe potuto complicare enormemente il compito alla squadra giallorossa, ma che paradossalmente invece ha finito per liberarne l’estro. Un po’ come quelli terrorizzati di subire un furto in appartamento che si decidono ad impiantare un sistema d’allarme solo dopo aver subito il danno. Complice anche il sopraggiunto atteggiamento conservativo della Lazio (proprio perché i biancocelesti sono una buona, ma non una grande squadra) la Roma ha riconquistato metri di campo e ha finalmente fatto intuire le sue potenzialità. Ha rischiato di pareggiare su una palla inattiva (croce delizia dei giallorossi) e ha trovato il pareggio in una combinazione offensiva in cui l’elemento decisivo, oltre ovviamente alla prodezza di Soulé, è stato rappresentato dalla sovrapposizione interna di Angeliño che ha schiacciato difesa e centrocampo della Lazio, liberando la zona dove l’argentino ha potuto sfogare le sue capacità balistiche.
Una volta in parità, l’abbrivio della gara sembrava fornire tutti gli elementi per poter ribaltare l’esito della sfida e invece, ancora una volta, la mentalità conservativa ha avuto la meglio e per poco il demone dei risultatisti non ha punito la mancanza di coraggio consentendo alla Lazio di costruire un altro paio di palle-gol (che nello specifico sembrano essere state neutralizzate più da qualche fantasmino dispettoso che da una reale possibilità balistica). Si può essere delusi, alla fine, dallo score di una squadra che nel 2025 sta correndo a ritmi insostenibili per chiunque? Di più, si può criticare un allenatore che nella sua carriera ha raggiunto il dato a questo punto definitivo di cinque vittorie e un pareggio su sei derby giocati in carriera? E in assoluto, si può pensare che la Roma debba essere criticata se non raggiungerà uno dei piazzamenti utili per la Champions League, considerato che tra novembre e dicembre la maggior parte dei tifosi evocava scenari apocalittici da retrocessione? Nella risposta a queste domande c’è tutto il mistero gaudioso di questo magnifico sport.
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