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La testa all’Atalanta per un’altra conferma

Contro la paura: dopo Empoli ed Helsinki la sfida di domani servirà ad archiviare Udinese e Ludogorets come “eccezioni”

Alcuni giallorosso si abbracciano dopo un gol all'Helsinki

Alcuni giallorosso si abbracciano dopo un gol all'Helsinki (As Roma via Getty Images)

Federico Vecchio, avvocato e scrittore
17 Settembre 2022 - 13:10

La verità è che, dopo Udine e Ludogorets, la paura più grande non era quella di andare a perdere ad Empoli o di non risollevarci in Europa League, ma era quella di dover ammettere di aver vissuto, dopo Tirana - vedendo scendere da quella scaletta, uno ad uno, Dybala, Matic, Wijnaldum e Belotti – un sogno. La sensazione, difatti, troppe volte provata, di ritrovarci così, di colpo, a metà campionato o in qualche quarto di finale di questa o quella coppa, ed essere costretti a fare i conti con quello che pensavamo che fosse ma poi non è stato, è diventata, via via, sempre più insopportabile. Ed è per questo che quella sensazione è diventata il vero avversario da sconfiggere in questi giorni. Perché basta con i sogni infranti: noi, quella Coppa, l’abbiamo toccata. Non era fatta di illusioni. Era realtà. Ed allora c’era solo da prendere per mano la squadra, crollata miseramente prima lì e poi là, e farle riprendere il percorso ricollocandola lì dove il tifoso romanista, senza muoversi di un millimetro, era rimasto ad attenderla, per riportarla su quella mattonella con vista sui primi quattro posti e, almeno, sulle fasi finali di Europa League. 

Si è avvertito, difatti, dopo quelle due pessime sconfitte, come sia stata la squadra ad essere stata trascinata dai tifosi, e non il contrario. Perché quando vedi quella tribuna ad Empoli, e lo stadio tutto esaurito contro l’Helsinki, ti rendi conto di come, anche se i risultati non ci sono, la gente continui a crederci sul serio, e tu che stai in campo non puoi deluderla. Ed era proprio questo che si avvertiva, giovedì sera, arrivando all’Olimpico. E questo sentimento, diffuso, nei minuti che precedevano l’inizio della partita, era rafforzato dalla sconfitta, sonora, di quegli altri. E non per le prese in giro da bar, che contano quello che contano, ma perché il messaggio che quella sconfitta stava mandando è che se un’altra squadra, che pure sin qui ha mostrato il petto in campionato, ne va a prendere cinque da una squadra di cui non riporto il nome in segno di solidarietà con tutte le vocali mancanti, vuol dire che, allora, anche le nostre due sconfitte ci possono stare e possono essere catalogate quali eccezioni.

La frase più abusata, difatti, alla notizia di quella sconfitta, è stata, dai tornelli fin dentro lo Stadio, «Questa è una stagione strana: c’è il Mondiale de mezzo», sentita più volte e declinata in varie maniere (spesso in uno con l’espressione: «a maggio po succede de tutto»). Ormai, dire che ci sia “il Mondiale di mezzo” è diventata l’espressione più utilizzata per giustificare qualunque cosa possa accadere, dal tracollo della Juventus alla possibilità che persino il Monza, questo Monza, possa vincere lo scudetto, quasi che quel “Mondiale de mezzo” sia una sorta di capodanno dell’anno mille: sai che arriverà, ma non sai cosa ci sarà dopo. E il fatto che sia una stagione “strana” ha trovato immediata conferma all’ingresso delle squadre in campo, quando, tra lo stupito ed il risentito, da più parti si è borbottato che «nun potemo giocà con le maglie dell’Inter». E come dargli torto. Per fortuna, a confermare che quei due orribili inciampi solo inciampi siano stati, c’è stata la partita.

Si è capito subito, pur giocando, il primo tempo, male, considerando che al quindicesimo eravamo già undici contro dieci, che la vittoria l’avremmo portata a casa. E la soddisfazione non è stata poca nel vedere la crescita, via via maggiore, di Matic (che «s’è preso le chiavi del centrocampo: apre e chiude palloni»), quella di Belotti («deve trovà la forma, ma se vede che è fortissimo») e quella di Zaniolo (che ha indotto un anziano abbonato, alle mie spalle, ad azzardare che «si libera dell’omo come Gigi Riva»), ma soprattutto quella di Dybala. Per il quale non ci si avventura più in paragoni. Forse perché inizia a trapelare la sensazione che sia semplicemente Dybala. Ovviamente, il secondo tempo è stato vissuto tutta in attesa del gol di Belotti, che è arrivato, ma soprattutto dell’Atalanta, che arriverà domani. E dopo i meravigliosi fraseggi di quei quattro lì davanti, la Tribuna si è scaldata solo per l’infortunio subito da Mancini.

Perché, quando era ancora gesticolante a terra, nitido è arrivato un «Ahia! S’è rotto la caviglia» dal solito ortopedico alle mie spalle. Nella preoccupazione generale, quella frase è caduta lì, seminando il panico. Ma quando Mancini si è rialzato, ed ha ripreso a giocare, una buona parte della Tribuna si è ricordata di quella diagnosi. Dando vita ad un rumoroso confronto, con il suindicato ortopedico, sul valore del silenzio, che ha toccato vette altissime. Ma, a quel punto, la forza terapeutica del tifo romanista aveva portato i suoi risultati: vittoria ad Empoli, vittoria in Coppa. E adesso testa all’Atalanta. Per trovare la conferma che, quando ci ritroveremo a parlare, tra qualche tempo, di Udine e di Ludogorets, parleremo di eccezioni. E non facciamo scherzi. P.S.: Anche con i colori della maglietta con cui scenderemo in campo. Per favore.

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