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L'analisi di Roma-Salernitana

Essere Mourinho, sposare Mourinho

Limitare le considerazioni sull’allenatore a un solo aspetto è come ridurre il giudizio su una libreria giudicandola dal codice di un pezzo

José Mourinho durante Roma-Salernitana

José Mourinho durante Roma-Salernitana (GETTY IMAGES)

24 Maggio 2023 - 16:01

Forse è il caso di stabilire una volta per tutte che il mestiere più difficile del mondo è davvero quello dell’allenatore. Togliendo dal mucchio solo quelle occupazioni per cui si rischia la vita (e volendo considerare brandelli di episodica viltà le aggressioni che a volte certi tecnici subiscono in alcune turbolenti parti del mondo), per cui non sarebbe giusto fare paragoni, pensando però a tutti gli altri lavori non riteniamo che ne esista uno in cui davvero nell’arco di due giorni si può essere considerati il più bravo al mondo e subito dopo uno dei più sprovveduti in assoluto. Pensate a un attore che abbia vinto un Oscar, a un chimico che abbia prevalso in un Nobel, a un cantante che abbia portato via un Grammy, ma anche a un semplice impiegato che abbia ricevuto un premio di produttività dalla propria azienda, un avvocato che abbia vinto la più difficile delle cause o un ciabattino, ammesso che ne esistano ancora, che abbia ricevuto l’onore di confezionare le scarpe al più elegante dei nobili: chi mai potrebbe sostenere che risuola male una scarpa, magari due giorni o anche due anni dopo aver ricevuto l’attestazione più alta? Nel calcio, invece, accade. 

Essere Mourinho
Quello che accade intorno a Mourinho, ad esempio, sta diventando paradigmatico. Gli illuminati proprietari della Roma, con una mossa totalmente imprevedibile, giusto un paio d’anni fa hanno deciso di rivolgersi, abituati come sono a trattare ingaggi con gli attori da Oscar, a uno dei tre o quattro tecnici in cima alla lista delle valutazioni di ogni addetto ai lavori, non a caso soprannominato Special One: José Mourinho. Senza alcuna competenza specifica, vista la loro assoluta inesperienza nel settore, hanno scelto l’uomo che forse più di ogni altro al mondo sa come si conquista un titolo, essendo di gran lunga il più bravo a farlo nella storia di questo sport in rapporto al gioco offerto. Perché allenatori in grado di vincere una volta ogni tanto giocando male ce ne sono stati, quelli in grado di lasciare un segno nella storia attraverso la bellezza del proprio gioco ce ne sono stati, ma pochissimi, tra questi e quelli, hanno resistito tanto a lungo vincendo in posti molto diversi. Ancora meno quelli che ormai da vent’anni portano a casa titoli ovunque siano andati (meglio di lui in attività solo Lucescu, vincendo in Turchia, Romania e Ucraina, e Guardiola, vincendo nei principali campionati europei). Qual era il senso della scelta dei Friedkin, dunque? Loro forse non sanno neanche la differenza che corre tra De Zerbi e Papadopulo, loro guardano all’eccellenza. E la scelta si è rivelata immediatamente giusta: la Roma dopo 61 anni ha vinto un trofeo internazionale di lunga durata (non, dunque, una Supercoppa) e a distanza di un altro anno è addirittura in finale della seconda competizione europea. Due finali in due anni, tre nei precedenti 94 anni. Un trionfo, quasi a prescindere dall’esito della partita di Budapest. Fa bene, oggi, Mourinho a dire che vincere l’Europa League sarebbe un miracolo come se vedessimo oggi Gesù Cristo passeggiare in Vaticano. Eppure se anche dovesse accadere frotte di infedeli sarebbero pronti ad individuarne l’impostura. E vabbè.

Gli inciampi in campionato
Accade però che in qualcuna delle tappe di avvicinamento verso questa possibile, magnifica annunciazione si sia balbettato un po’. E sia accaduto anche lunedì a causa essenzialmente di una formazione non adeguata alle proprie potenzialità e del buono stato di forma di un avversario che peraltro, sommati i valori tecnici iniziali, non era poi di valore così distante dall’altro… Apriti cielo: anche nei dibattiti della nostra radio sono riemersi gli spiriti contrari, quelli che in nome della purezza tattica di un progetto sono disposti a sacrificare qualsiasi altra considerazione. La discussione sarebbe anche interessante se alla Roma, soprattutto nel tragitto moderno della sua gloriosa esistenza, si fosse abituati a raccogliere, o sfiorare, ogni anno trofei nazionali ed internazionali, tanto da poter consentire al più snobistico degli assertori dell’una o dell’altra teoria di poter preferire una versione all’altra. Ma alla guida di questa squadra si sono succeduti negli ultimi anni tanti allenatori di belle speranze e di limpidi progetti tattici che poi però, a volte sul più bello, altre sul più brutto, si sono dovuti arrendere ad un altro tipo di logica, quella che tende a mettere d’accordo tutti: le mancate vittorie. 

Sposare Mourinho
Insomma, ogni allenatore di alto livello è eccezionale a modo suo: non si può rimproverare a Di Francesco di non avere l’appeal di Mourinho, non si può rimproverare a Mourinho di non perseguire la bellezza come fa Guardiola, non si può rimproverare a Guardiola... no, a Guardiola non si può proprio rimproverare niente a prescindere (su questo, fatevene una ragione). Ma contestare Mourinho è ugualmente ridicolo. Ogni scelta fatta dal tecnico, dal primo giorno in cui si è seduto sulla panchina della Roma (anzi, dal primo giorno in cui si è seduto su una panchina) è stata puntata ad un solo obiettivo, quello di raggiungere il risultato che gli è stato richiesto. Brutto gioco o bel gioco, attacco o difesa, sovrapposizione o catenaccio, difesa a zona o difesa a uomo. In ogni frangente della sua vita ha scelto sempre la strada che per lui poteva più ragionevolmente portare alla vittoria, e quasi sempre ha avuto ragione. Tra le conseguenze del suo spessore c’è il fatto che se scegli Mourinho devi poi sposare Mourinho. Chi non lo fa diventa solo un nemico sulla strada per il successo: si tratti di Pinto, di Berardi, di Candela, di Cassano, di Ulivieri o del tifoso che un giorno ha fischiato Pellegrini. A lui non interessa, evoca i suoi principi da srotolare come un tappeto rosso verso la strada del successo. Ecco perché oggi una rubrica come questa forse non ha troppo senso. Avremmo potuto scrivere delle cose buone e di quelle meno buone che tatticamente la partita con la Salernitana ha offerto. Ma avremmo ridotto il vasto pensiero di Mourinho al codice di un catalogo Ikea: un pezzo di un meccanismo che poi va apprezzato solo nella sua interezza. Mourinho è uno dei più grandi allenatori del mondo. È come Robert De Niro quando recita, anche se viene scritturato per una commedia per bambini. Loro sono abituati a portare a casa il risultato avendo capito prima degli altri che a questo mondo la filosofia da sola non basta e soprattutto non paga. Che volete che sia, in questo senso, la risalita con i tempi sbagliati di El Shaarawy sulla penetrazione di Candreva?

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