Agostini: «A Roma ho imparato a volare»
Parla l'ex della sfida tra giallorossi e Milan: «Da voi sono cresciuto. Mi volle Eriksson, con Liddas non andò bene: ma è stato bello»

(GETTY IMAGES)
Duecentoquarantaquattro partite e settantatré gol, non lo scrivo con i numeri per dare più rilevanza alla sintesi estrema della carriera di Massimo Agostini nel Cesena dove è nato calcisticamente, è andato e ritornato tre volte da giocatore e oggi fa parte del Consiglio di amministrazione mettendo al servizio della squadra e degli altri dirigenti la competenza acquisita in tanti anni di calcio ad alto livello.
A Roma è stato due stagioni tra l’86 e l’88 con 52 presenze e 8 gol, poi si è dato il cambio con Rizzitelli senza sbattere la porta o portarsi dietro rimpianti.
Come stai Massimo?
«Benissimo… Faccio la cosa che mi piace per la società di cui sono innamorato, che mi ha dato notorietà, dove ho giocato per sedici anni e fatto tantissime cose. Sono contento e orgoglioso di rivestire questo ruolo e di lavorare per il Cesena».
Il gol al Verona nell’aprile del ‘90 che salvò il Cesena, è il più importante della tua carriera?
«In Serie A penso di sì: era l’ultima partita prima del mio trasferimento al Milan e già l’anno prima avevo segnato al Como il gol della salvezza con una giornata in anticipo. Quelle due stagioni a Cesena dopo il ritorno dalla Roma sono state fondamentali per riemergere e tornare nel calcio vero».
Parliamo dei tuoi anni alla Roma.
«Ero in B, qualcuno fece il mio nome a Eriksson e nel girone di ritorno mi hanno seguito in molte partite. Ho chiuso la stagione con 13 gol ed è arrivata la chiamata: mi ha voluto lui».
E come è stato l’impatto?
«Beh, abbastanza tosto. Venivo da una piccola provincia e a quell’epoca a 22 anni non eri maturo come adesso, però avevo voglia di esplorare e mi incuriosiva tutto: Trigoria, la squadra, i giocatori italiani e stranieri che avevano fatto il Campionato del Mondo. Tutto questo mi ha fatto veramente crescere».
Dove abitavi?
«I primi due mesi sono stato a casa di Carlo Ancelotti, poi mi sono trasferito all’Eur e ci stavo alla grande. Ero vicino a Trigoria, quando avevo voglia andavo in centro o per la Cristoforo Colombo o tagliando per qualche scorciatoia. Carlo poi l’ho ritrovato al Milan nel 1990, mi ha insegnato tanto».
Il tuo primo gol con la Roma a Torino te lo ricordi?
«Come no… avrei potuto fare una doppietta, presi anche una traversa. Arrivò questa palla rasoterra non mi ricordo se di Gerolin o Conti e al volo di piattone l’ho messa dentro. Vincemmo 2-0».
L’eliminazione a Saragozza in Coppa delle Coppe è il rimpianto più grande?
«Partita difficile contro una squadra cui fu permesso di tutto. Io entrai nel secondo tempo, uscimmo ai rigori ma la terna arbitrale non fu assolutamente all’altezza, ci menarono dal primo minuto e stettero a guardare. Volavano cazzotti, schiaffi: uno di loro (Fraile, ndr) aveva al dito una fede con un brillante, al controllo se l’era messa al contrario e non se n’erano accorti; poi in campo la girò e su un calcio d’angolo diede una manata in faccia a Gerolin portandogli via la pelle dalla fronte al collo».
Roba da calcio di allora, oggi non succede più.
«No, ci siamo dentro e lo dobbiamo accettare però troppe interruzioni. Il calcio non è il basket che ti fermi e riparti, deve avere una continuità di gioco, di emozioni, altrimenti perdi tutto l’entusiasmo e l’adrenalina che ti dà vedere un derby, una partita che ti può costare lo Scudetto, la retrocessione, una coppa».
Secondo anno a Roma arriva Liedholm, ti fa giocare poco e torni a Cesena.
«Avevo un altro anno di contratto e potevo rimanere tranquillamente, nessuno mi chiese di andare via. Era arrivato Voeller e in Coppa Italia facemmo coppia poi alla prima di campionato a Cagliari, Liedholm rimise Pruzzo davanti e mi spostò sulla fascia. Non era il mio ruolo, non mi piaceva e un giorno gli dissi che avrei preferito giocare da attaccante quando c’era bisogno. Mi è dispiaciuto, ma tornare a Cesena è stata la scelta giusta: ho segnato 23 gol in due anni e mi sono conquistato il Milan».
Ultima domanda su quel periodo alla Roma: il caso Manfredonia ha impattato su di voi?
«Alla presentazione avevamo capito che qualcosa poteva succedere, poi quando alla stazione quando siamo partiti per Vipiteno c’è stata la contestazione, Lionello si è messo davanti a tutti per dire “Sono qui, non mi nascondo” e ha fatto capire che persona fosse. Alla lunga non ci sono state ripercussioni, eravamo convinti che con il tempo lo avrebbero accettato e a metà campionato allo stadio non si sentiva più un fischio, anzi spesso veniva applaudito. Anche perché Lionello venne incontro a quello che chiedeva la parte più accesa del tifo».
Ed eccoci al Milan, ti sei mai pentito di esserci andato?
«Allora, io sono tifoso interista da quando avevo 13 anni, quando nel dicembre ’89 il mio procuratore mi disse che dovevamo incontrarci con Galliani e Braida gli risposi: “Ma proprio con loro”? In realtà la mia preoccupazione era un’altra: mia figlia che oggi ha 37 anni e sta bene era nata con una malformazione ai reni ed era già stata operata due volte. Mi aveva cercato anche Bigon che avevo avuto a Cesena e avrebbe vinto lo scudetto col Napoli. Avrei giocato con Maradona e Careca, ma quando dissi loro dei problemi di mia figlia mi risposero che mi sarei dovuto arrangiare da solo. Galliani invece mi disse: “Lei pensi a fare il calciatore, a sua figlia pensiamo noi, di qualunque cosa abbia bisogno”. Così gli ho dato la mia parola e l’ho mantenuta anche quando qualche settimana dopo Beltrami mi propose di andare all’Inter a fare coppia con Klinsmann. Il contratto sarebbe stato migliore e avrei indossato la maglia neroazzurra con Trapattoni, ma ormai avevo preso la mia decisione e dall’altra parte c’era Arrigo Sacchi con cui avevo vinto il campionato Primavera a Cesena. Quando dissi a Beltrami che non sarei andato all’Inter mi ringraziò per la mia onestà e prese Fontolan».
In Milan-Roma 1-1 del ‘91 segnaste gol tu e Rizzitelli che vi eravate dati il cambio in giallorosso: siete amici?
«Sì, abitiamo a un chilometro di distanza, andiamo al mare allo stesso stabilimento d’estate, ogni tanto andiamo a fare qualche partitella sulla sabbia d’inverno, d’estate giochiamo quasi sempre. Lui fa il nonno, io ancora no, siamo due pensionati che però hanno voglia di fare».
Ultima lunghissima parte della tua carriera, sei andato avanti oltre i 40 anni.
«A me piaceva stare al vertice, ma anche giocare. Al Milan ho fatto 22 presenze, in tutte le competizioni: avevo 26 anni, ancora due di contratto; perciò, avrei potuto starmene beato a godermi le partite quando venivo chiamato, ma non era per me. Quando presero Serena e Cornacchini, andai a Parma dove feci 34 gare con una decina di gol e vincemmo la Coppa Italia. Ora, io ho trovato allenatori importanti e bravi e qualcuno con la puzza sotto il naso, come a Parma e ho deciso di andarmene nonostante abbiano cercato di bloccarmi. L’ultimo giorno di mercato mi prese l’Ancona, l’unica squadra che cercasse una punta, ma a ottobre arrestarono il presidente Longarini per “Mani Pulite” e ci cadde il mondo addosso. Segnai 12 gol che in quegli anni significava essere tra i cinque o sei attaccanti italiani più forti, ma retrocedemmo. Quando avevo preparato gli scatoloni per tornare a Parma, Tanzi decise di lasciarmi nelle Marche ancora un anno. Andai in ritiro in ritardo e di traverso, poi piano piano mi tornò la voglia. Vinsi la classifica dei marcatori con 18 gol e altri 5 li ho segnati in Coppa Italia dove perdemmo in finale con la Sampdoria. A Napoli dove era iniziato il dopo Ferlaino, io e la famiglia siamo stati benissimo: sarei rimasto volentieri altri due o tre anni invece sono tornato a Cesena in B e siamo retrocessi. Restammo in tre, vinsi la classifica marcatori e con una squadra tutta nuova riportammo il club dove meritava di stare».
Mi hai raccontato la tua carriera, hai giocato in tante squadre ma nella foto del tuo profilo indossi la maglietta della Roma.
«È stata scattata a Dubai quando prima del Covid siamo andati con Scarchilli e altri ex a fare un torneo di calcio a 5. La prima volta siamo arrivati terzi, ma la seconda abbiamo vinto battendo il Barcellona in finale. A Roma ho ancora amici, ogni tanto ci rivediamo quando mi capita di venire in Federazione per lavoro».
L’ultima cosa: ti chiamano ancora Condor o Massimo?
«Mi chiamano tutti Condor, è il soprannome che ha segnato tutta la mia carriera e mi ha portato fortuna. La gente mi conosce così e io ne sono contento».
© RIPRODUZIONE RISERVATA