AS Roma

Ora, non più secondi

Dopo Roma-Napoli nessuno dubita che le vittorie torneranno e anche presto. La preoccupazione è che a quelle non corrispondano i successi. Ma tutti hanno fiducia in Gasp

(MANCINI)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
02 Dicembre 2025 - 07:30

«Quello che sta succedendo adesso è che finalmente sono connessi tra i reparti». Questa frase non l’ha pronunciata uno di quelli che abita nel condominio di Del Piero, ma uno in fila ai tornelli. A chiusura di un ragionamento con cui voleva dimostrare che la nostra forza, ora, al di là dei singoli, è data dalla capacità dei giocatori di diventare parte del tutto. Vedasi «Mancini e Celik che diventano attaccanti», ad esempio.
Ma il ragionamento non faceva tanto breccia, va detto, perché la preoccupazione sovrastava l’ottimismo. E la preoccupazione era data dai due giorni di riposo in meno («Loro hanno finito di pensare alle Coppe da martedì sera») e dalla, oramai cronica, incapacità di capire quale sia la nostra identità in attacco («So’ tutti esperimenti»). Ma la preoccupazione, se prevaleva sull’ottimismo, di certo non prevaleva sulla fiducia in una squadra che ha sin qui dimostrato di credere nel proprio allenatore («Sono tutti convinti che, con lui, possono crescere»), ma anche nei propri mezzi («Vedi che tutti non si limitano a fare il compitino, ma osano sempre qualcosa in più?»). Insomma, il Napoli sarà pure il Napoli dei due scudetti in pochi mesi, ma noi siamo una squadra che può guardare negli occhi, senza timore, chiunque («Hai dimostrato che lassù puoi starci a pieno titolo»). 
Tutto molto bello, finalmente. Perché non si sale in Tevere sperando di riuscire, ma si sale in Tevere convinti che si può fare, che siamo finalmente protagonisti del nostro Campionato, che sono gli altri che devono iniziare a preoccuparsi di noi. La notizia di Ferguson davanti viene letta, da un lato, come una manifestazione di coraggio («Andiamo a giocarcela nella loro area») ma, dall’altra, come una necessità difensiva («Ti schiacciano e ti serve qualcuno pronto a riprendere i lanci lunghi per provare ad uscire»).  Ma la vera novità, rispetto al passato, è che i giudizi positivi sulla scelta di Gasperini di fare giocare Ferguson sarebbero stati ugualmente positivi se quella scelta fosse caduta su Dybala o su Baldanzi («Avrei preferito il tridente leggero, ma va benissimo così: Gasperini sa come giocarsela»). A dimostrazione di una fiducia davvero ritrovata, «se solo pensiamo a dove eravamo un anno fa di questi tempi». 

Si parte, e qualche preoccupazione inizia ad emergere. Un po’ perché sbagliamo il semplice («Ma che so’ sti passaggi tutti storti?»), un po’ perché la sensazione che si avverte nei seggiolini è quella di un arbitraggio fiscale («Questo me pare più attento ai centimetri che ai falli…»). Un po’, e soprattutto, perché il Napoli, e lo si capisce subito, è la squadra più forte mai affrontata quest’anno, pressandoci dovunque, impendendoci di far girare il pallone come ormai siamo abituati a vedere, capace di palleggiare e ripartire con facilità.  Ci si innervosisce, perché non tiriamo mai («Al massimo, così, fai zero a zero») e perché non si comprende la ragione per cui l’arbitro non fischi, non ammonisca, non blocchi, sul nascere, quelle piccole perdite di tempo che, come vedremo poi, si protrarranno fino al novantaseiesimo («’St’arbitro se deve fà sentì!»). La verità è che ci rendiamo conto che questa partita non sta andando come ci aspettavamo che andasse; che il Napoli è più forte; che non è colpa dell’arbitro; che il rigore non dato a quegli altri ci ha, incredibilmente, rovinato il sabato sera («Io che ci rimango male per un rigore non dato alla Lazio al 95°: stiamo all’assurdo»); che la Juventus ha vinto; che l’Atalanta ha vinto; che il Bologna è probabile che pure vinca. E, quindi, quello che la Tevere chiede è che questa partita venga vissuta come una finale. Che, si sa, sono soltanto da vincere, senza preoccuparsi del come.  Perché sarebbe bello rivivere una settimana primi in classifica, avendo messo un minimo margine tra noi e gli altri, sentendoci di nuovo protagonisti e non comparse nel Campionato degli altri. È questo che la Tevere sta chiedendo. Non vuole vincere lo scudetto ora. Vuole sentirsi finalmente ricompresa nel ruolo che la nostra Storia ci ha assegnato, perché siamo in debito di tanti successi mai vissuti («Io non voglio più aspettare»). Svilar fa Svilar e, dopo che Pellegrini prova e Ferguson non riesce, dopo che Koné perde palla («Perde palla?! L’hanno abbattuto!») e Svilar non riesce a fare Svilar («J’è passata sotto er braccio; aveva preso pure questa…»), ci ritroviamo a fare i conti con la realtà: «contro le grandi non vinci». 

Nessuno, però, vuole arrendersi a questa sensazione che ci pervade, che è quella di essere eterni secondi («’Sta partita nun po’ finì così»). E, quando Baldanzi entra in campo, la fiducia in Gasperini è tanta, e la speranza è quella che, malgrado collocato lassù, in cima a Monte Mario, riesca comunque a trasmettere laggiù quello che c’è da fare. Ma il secondo tempo va avanti come il primo: il Napoli fa la sua partita, giocando bene («So’ forti, dobbiamo dirlo»), e noi non diamo mai la sensazione di avere capito fino in fondo come si possa fare. Poi, quando Dybala dal cilindro estrae la solita magia, Baldanzi ha sul piede la penna per scrivere una bellissima pagina della sua vita romanista. E tira pure bene, forse troppo bene, ma quel pareggio svanisce sulla mano del portiere («Se avesse calciato sporco, entrava, perché gli avrebbe rubato il tempo»).  Usciamo, quindi, guardando la classifica («Stiamo sempre lì»), i risultati che non arrivano contro le grandi («Se non vinci gli scontri diretti, è dura»), le facce di tutti che sono più amareggiate che disilluse. Ma usciamo condividendo, soprattutto, la sensazione che è di tutti, e cioè che questi punti persi, alla fine, li rimpiangeremo. Proprio perché tutti hanno fiducia in Gasperini ed in questa squadra. Nessuno dubita che le vittorie continueranno ad arrivare, e da subito. Ma la preoccupazione è un’altra: è che a quelle vittorie non corrispondano i successi. Ed è di questo che non se ne può più.

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