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Da Luis Enrique a Ranieri in otto anni: il mister che non c'è

Dal 2011 sette tecnici tra illusioni, esoneri, ritorni. Dallo spagnolo per la rivoluzione culturale al tecnico di San Saba per rimettere a posto i cocci

, di LaPresse

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08 Maggio 2019 - 12:22

«Se ti sei stancato di vincere facile, la Roma è pronta ad accoglierti a braccia aperte». Tutto è cominciato così, con una battuta che poi non era proprio una battuta, perché magari ci fosse cascato, il percorso americano riferito agli allenatori in cerca di quello giusto per dare concretezza ad ambizioni di grandezza.

La battuta era di Franco Baldini, all'epoca ancora direttore generale in pectore in attesa di liberarsi dal contratto con la federazione inglese. Ed era diretta a un signore chiamato Pep Guardiola che in quel momento era il grande capo di un Barcellona meraviglioso. La risposta non è difficile da immaginare, però non fu un semplice diniego accompagnato da un sorriso di circostanza, ma supportato da un'altra domanda: «Io resto dove sto, ma perché non prendete Luis Enrique che è bravissimo?».

Fu ascoltato. Perché qualche giorno prima il nome dell'asturiano a Trigoria era stato segnalato da un procuratore di lungo corso come Dario Canovi che ne aveva parlato in termini entusiastici. Ma soprattutto perché Luis Enrique era l'allenatore di discreto successo della seconda squadra del Barcellona, mes que un club, la diversità di una scuola con radici olandesi, l'ideale, si pensava all'epoca, per dare vita a quella rivoluzione culturale che doveva essere l'inizio della nuova stagione a stelle e strisce.

Luis Enrique fu contattato, incontrato, convinto. Non l'avesse mai fatto. Bocciato ancora prima di mettere piede a Fiumicino, anche se già all'inizio ci mise del suo, Verre in campo, Totti sostituito nel fallimentare preliminare di Europa League con lo Slovan Bratislava. La rivoluzione, almeno secondo molti, era già fallita. Fu una stagione tra poche illusioni e troppe delusioni senza però che si capisse che il percorso da fare era quello per arrivare a costruire una Roma diversa.

Non fu possibile. E il primo ad alzare bandiera bianca fu proprio l'hombre vertical che, nonostante le insistenze di Baldini a rimanere, decise di andarsene a rigenerarsi prima sulla panchina del Celta Vigo e poi a vincere tutto su quella del Barcellona. Ma qui era stato etichettato come un cretino.

C'era da cercare un nuovo allenatore a Trigoria. Non fu facile. Anche perché con il prescelto, Vincenzo Montella, nacquero problemi di natura economica che portarono a una rottura tra l'allenatore e la dirigenza giallorossa. Che si ritrovò al punto di partenza. Alla fine si decise di riportare a Trigoria Zdenek Zeman, tecnico che era rimasto nel cuore di molti tifosi affascinati dall'utopia calcistica del boemo. Non fu un successo.

Anzi l'esatto contrario tra scelte cervellotiche (il portiere Goichocea su tutte) e una rigidità di pensiero che portò a un inevitabile esonero. Risolto promuovendo Aurelio Andreazzoli sulla panchina della Roma, sperando di arrivare alla fine della stagione salvando il salvabile. Come finì quella stagione non ci va neppure di ricordarlo. Il risultato, comunque, era che si doveva cercare un nuovo allenatore.

Ancora Franco Baldini in azione. Con l'idea, già allora, di provare a portare a Trigoria un nome importante, un tecnico che avesse già una certa confidenza con la vittoria. Tutte le strade portarono a Max Allegri che aveva vinto uno scudetto con il Milan (e ne aveva sfiorato un secondo se fosse stato visto il gol di Muntari contro la vecchia signora, un pallone entrato di un metro e lì cominciò l'epopea dell'attuale Juventus).

Fu trovato anche l'accordo con Allegri con tanto di contratto firmato, contratto che ancora oggi è chiuso in un cassetto di una scrivania a Trigoria. Solo che a Trigoria le cose precipitarono, Baldini rassegnò le dimissioni mentre a Milano Galliani insisteva con Allegri per trattenerlo. Non si fece niente. E la conseguenza per la Roma fu quella di rimettersi in caccia di un allenatore. Dopo mille nomi, alla fine la spuntò il francese Rudi Garcia reduce da uno scudetto vinto in Francia con il Lille, estraneo alle dinamiche di Roma e del nostro calcio.

La cosa funzionò per una stagione con tanto di chiesa rimessa al centro del villaggio. Poi dopo un secondo posto arricchito da quelle dieci vittorie iniziali che, come negarlo, avevano illuso che fosse l'anno buono, cominciò una discesa che si concluse, con colpevole ritardo, dopo due anni e mezzo francesi, con un esonero che riportò a Trigoria Luciano Spalletti. Un esonero che la Roma non voleva fare perché, pensate un po', aveva già trovato un accordo con Antonio Conte per l'anno successivo.

Ormai siamo alla storia recente. Il pelato di Certaldo è durato un anno e mezzo peraltro con risultati eccellenti con tanto di record di punti e vittorie, tutto inutile però in chiave campionato con la Juventus cannibale di questi anni. Fatale furono i dissapori con la società con le strategie di mercato ma soprattutto la rottura prolungata con Totti. E allora Di Francesco, oggi Ranieri sempre cercando il mister che ancora non c'è.

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