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Un sogno da bambino che scende in campo: De Rossi siamo ancora noi

DDR non ha smesso di essere decisivo. Il gol di Genova e più ancora la prestazione lo dimostra. Se il fisico risponde bene, può continuare a giocare. Qui

Daniele De Rossi esulta a Genova dopo il gol decisivo contro la Samp, di LaPresse

Daniele De Rossi esulta a Genova dopo il gol decisivo contro la Samp, di LaPresse

08 Aprile 2019 - 07:49

Non è questione di vena gonfia sul collo. Né di esultanze sfrenate, sfoghi rabbiosi, urla, abbracci e tutta la collezione emotiva esplosa nella notte di Marassi. Non soltanto perlomeno. L'amore lo riconosci prima di tutto dagli sguardi. E quelli di De Rossi non mentono mai. Che sia protagonista diretto o meno. Dalla tribuna alla panchina al campo la gara la vive sempre allo stesso modo, con uguale intensità. Anche se a Genova attore principale (e guida) lo è stato eccome. In quei posti davanti al mare, solo chi lo ha dentro riesce a sparigliare, dirimere l'incubo e spalancare quell'orizzonte, ricalibrando i pesi e riaccendendo le speranze.

Il Capitano segna poco, ma ha in dote i gol libera-tutti. Il 28 maggio di due anni fa ha glorificato nel modo più degno l'addio del più grande. Un anno fa, di questi tempi, ha regalato un sogno di coppe e di campioni. Sabato sera ha sollevato un popolo dalle nubi che lo opprimevano. Tanto con la rete decisiva, quanto con lo spirito giusto. Il paradigma è nella rincorsa a fine match in cui ha moltiplicato energie e velocità per andare a chiudere un'azione sampdoriana che stava diventando minacciosa, prendendo un pestone che già a guardarlo faceva male. E non solo per empatia. Altro che canto del cigno, come qualcuno implicitamente invoca da qualche tempo. In quell'episodio, come nella grinta mostrata per tutta la sfida, nell'esempio fornito ai compagni, nella leadership e sì, anche nel gol e nell'esultanza, c'è tutta l'importanza del numero 16 per questa squadra.

Sarebbe lui il giocatore che deve smettere e dedicarsi ad altro? Snocciolate i suoi numeri, guardate i risultati con e senza di lui, più ancora lo spirito di gruppo, provate a farlo tutto d'un fiato. Ma anche con pause sincopate resterete a bocca aperta. Altro che maturità. La laurea magna cum laude è stata ampiamente conseguita da molti anni, ormai stiamo al Master. Del livello più elevato. Lui dispensa lezioni di romanismo. Gratuite. Magistrali. Dice il vero rispondendo ai falsi. Insegna, compone, dispone e non si scompone. Nemmeno quando lo tirano per la giacchetta, assegnandogli in anticipo un ruolo futuro mai richiesto, in ossequio al più facile degli slogan. Il suo contratto in scadenza a giugno non ha ancora un seguito - di alcun genere - perché De Rossi non ha deciso ancora il suo futuro prossimo. Determinante sarà l'aspetto fisico. I ripetuti infortuni (su tutti quello al ginocchio che per un po' ha fatto tremare davvero) e le assenze prolungate nella stagione in corso hanno tolto alla Roma il suo leader nei momenti più importanti, sottraendo a lui la possibilità di incidere nel modo che gli riesce meglio. Sul campo. Dove vorremmo restasse ancora a lungo. Sempre che lo voglia lui per primo.

Ma il Capitano non è un titolo da sbattere in prima pagina a seconda delle proprie convenienze. Come non è uno ordinario. Anzi: è agli antipodi delle convenzioni. È un sogno da bambino che scende in campo ed esulta come e più di noi ad ogni gol. È uno che quando segna impreca come chi si è appena liberato da un peso di una tonnellata, o grida «Daje Roma Daje», o si strappa la maglia per la foga correndo sotto la Sud, o ci si butta dentro. È un giocatore che si arrampica sul muretto perché in quella Curva starebbe meglio dentro che fuori. È una parola mai convenzionale, una frase mai fatta, una leccata di culo mai concessa. È il gemello diverso di Totti, suo naturale alter ego, destinato da molto prima di due anni a raccoglierne il testimone. Nel solco di una storia iniziata coi Ferraris IV, i Bernardini e gli Amadei e proseguita dai Rocca, dai Conti e dai Di Bartolomei. Se per ricucire il filo della memoria basta un Ago, è emblematico che sia stato Daniele a realizzare il gol che ha fatto tornare la Roma alla vittoria, aprendo le porte al compleanno di Dibba. Proprio lui che avrebbe voluto chiamare il figlio Agostino.

Come il Capitano degli Anni 80, come gli altri Capitani e simboli romanisti, De Rossi è grinta e tecnica, anima e fulcro di questa squadra, nel bene e nel male. E il suo bene rispecchia e rappresenta, e dal suo male non si tira indietro, perché quel malessere lo vive e somatizza come il più tifoso fra i tifosi. È non conforme per natura, quando c'è da difendere come da attaccare, anche metaforicamente. È un volto che non si nasconde mai, fuoriclasse in campo e fuori, sempre al fianco del compagno in difficoltà e perciò leader carismatico, al di là della fascia d'ordinanza. È la simbiosi con noi che siamo lì, che solo chi sa che sentimento enorme è la Roma può capire, fregandosene delle mode e delle apparenze, per sprigionare gli istinti che gli frullano dentro. Tu chiamale se vuoi pulsioni. Da innamorati. Da tifosi. Da Daniele De Rossi.

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