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Tatticamente - L'analisi di Roma-Juventus: se la fine giustifica il mezzo

La guerra di religione: Allegri punta alla sostanza, Di Francesco vuole cambiare la mentalità italiana. E intanto l’ultima partita ha deluso gli osservatori

15 Maggio 2018 - 07:23

Sono state due le partite giocate all'interno della stessa Roma-Juventus domenica sera. Una fino al 23' del secondo tempo, condotta con disinvoltura dalla Roma, l'altra dal momento dell'espulsione di Nainggolan in poi, in cui la Juventus ha assunto il controllo della partita e ha deciso di anestetizzarla, per arrivare al 90' senza correre ulteriori rischi, provando magari anche a colpire la Roma in un'eventuale improvvisa defaillance, ma con l'obiettivo principale di invitare gli avversari alla cautela, e raggiungere così quel pareggio che le avrebbe consentito di festeggiare lo scudetto.

    

Guardate i dati della gara scomposti per quarti d'ora: la differenza dell'ultima mezz'ora col resto della partita è evidente. Si dirà che il fine giustifica i mezzi, ma il comportamento della Juventus soprattutto fuori casa in questa stagione non è stato tanto diverso lungo tutto l'arco del campionato. Del resto il pensiero di Allegri al riguardo è noto e lo ha ribadito anche l'altra sera, dopo la partita:

«Nel calcio niente è cambiato dal 1993, quando è stata introdotta la rivoluzionaria regola del divieto per il portiere di prendere in mano il pallone sul passaggio di un compagno di squadra. Quindi non ci dobbiamo inventare niente di nuovo. Io mi rifaccio all'insegnamento dei nostri vecchi allenatori che invece oggi sembrano sorpassati, ma il calcio è semplice: ci vuole una buona fase difensiva e poi bisogna fare gol». Allegri, insomma, vuole stabilirsi sul vecchio solco della tradizione molto juventina del calcio all'italiana, che si rifà a certe ataviche abitudini del nostro popolo: restare chiusi, poi appena si può si va a far male agli avversari. Ma perché Allegri ribadisce ormai quasi ad ogni intervista questi concetti?

Il calcio e l'anticalcio

Sta diventando una guerra di religione. Ognuno con le sue convinzioni. Da una parte i tecnici rivoluzionari, alla Sarri e alla Di Francesco, sostenuti da una porzione crescente di osservatori neutrali, dall'altra il massimo rappresentante di una tradizione italiana che sta cercando di riaffermare se stessa. Ciò che Allegri non dice è che certe tattiche funzionano solo se disponi dei giocatori migliori.

Se invece non hai il massimo della qualità succede quel che è diventato prassi in quasi tutte le partite dilettantistiche ad ogni latitudine: portieri che la buttano più lontano possibile e poi si va a duello per conquistare il pallone e, se possibile, tirare in porta. Come si possa coltivare un talento in questa maniera non è dato saperlo.

E qui sta il fattore maggiormente diseducativo del discorso di Allegri che difendendo il suo lavoro alla Juventus - indiscutibile, sia chiaro - non rende certo un buon servigio a tutti quelli che in Federcalcio e nell'Associazione Allenatori hanno da tempo studiato altri giardini per capire come facciano in altri paesi a coltivare così tante varietà di fiori. E così si è scoperto che la rivoluzione di Guardiola ha portato la Spagna (e la Germania e da un po' anche l'Inghilterra, proprio dov'è passato lui, guarda un po') a praticare un altro tipo di calcio, a far sviluppare il talento cercando il dominio della partita, il possesso della palla, la tecnica di base anche per i difensori, altro che palla lunga e pedalare, sviluppando ovviamente concetti di squadra e lavori sulla palla più che sull'avversario.

E così in Italia ormai da qualche anno stanno fiorendo allenatori alla Sarri, alla Di Francesco, alla Giampaolo, alla De Zerbi che invece portano avanti concetti molto diversi da quelli di Allegri. E quando questi allenatori vengono elogiati, per l'indubbia qualità del lavoro svolto che porta le loro squadre spesso ad esprimersi a livelli impensabili anche se non sempre con la necessaria continuità (perché lì poi entra in ballo la qualità a fare la differenza), a Torino ci restano male. E dopo la settima vittoria consecutiva cercano di sbeffeggiare quelli che hanno affrontato la lotta ad armi impari puntando magari su concetti diversi dai loro. E però poi lo "sportivo" Chiellini preferisce glissare quando gli ricordano che i titoli vinti sono 34 e non 36.

La brutta partita

Così torniamo a Roma-Juventus di domenica. E ci rendiamo conto che ogni volta c'è un fine a giustificare un mezzo. Stavolta era "la" fine, cioè lo scudetto, a legittimare il vuoto offerto in campo dalla Juve (va ricordato infatti che in parità numerica la Roma ha sempre cercato di fare la partita). Così come altre volte altri fini rendono digeribile una pratica che resta diseducativa. E noi appoggiamo fortemente Di Francesco che invece questa mentalità molto italiana sta provando a cambiarla ad ogni costo.

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