Milano (e non solo) a portata di mano
Quei 38 minuti iniziali a San Siro a distanza di due giorni restano scintillanti e valgono più di un’orma
		(GETTY IMAGES)
I fatti di Milano non li dimentichiamo. Tranquilli, si parla di campo. Quei 38 minuti iniziali a San Siro a distanza di due giorni restano scintillanti e valgono più di un’orma, sia pure profonda. Perché sono parte di un percorso già inaugurato e infinitamente più lungo. Sono vere e proprie tracce di Gasp. Di quello che nei tempi bergamaschi trasformava giocatori semisconosciuti in cavallette impazzite all’assalto di chiunque, fosse stato anche il Liverpool o il Psg, o il Real di Di Stefano o l’Olanda di Cruijff.
Così è andata anche al Meazza, al cospetto del Milan-di-Allegri-senza-coppe, che letto tutto d’un fiato è sinonimo di sentenza d’alta classifica. Quasi un tempo da stropicciarsi gli occhi e riempire l’anima, poi il contraccolpo del gol ma anche la reazione fino al rigore. Che in totale vuol dire mettere l’avversario alle corde per oltre un’ora. Nel solco del match con l’altra milanese, ancora più quotata. «Milano a portata di mano». Ma non solo. Lo dice la classifica: secondi dopo 10 giornate, a un punto dalla corazzata che avrebbe dovuto ammazzare il campionato, insieme alle milanesi, sopra alla Juventus. E con la miglior difesa. Sì d’accordo, l’attacco è il punto dolente, la media di un gol a partita è più che deficitaria, se non segni non vinci, ma il “premio Gac” è già stato abbondantemente assegnato.
Più che sottolineare l’ovvio, a questo punto ci si dovrebbe concentrare su aspettative e risultati. E sì, anche sul gioco, che agli ipercritici in servizio permanente effettivo pareva latitare. Ma quello visto domenica sera non è un abbaglio da «tuttapposter», categoria tanto abusata da quelli di cui sopra. È invece una squadra abbagliante. Nel furore con cui riconquista palla, più ancora che nella bellezza. L’estetica fine a se stessa ha poco senso. La passione e l’impeto sono decisamente più esaltanti e funzionali. Almeno nel calcio, almeno per chi si può finalmente abbeverare alla fonte dello Sturm und Drang romanista. Alzi pure la mano chi in estate, all’alba della nuova era, avrebbe pensato di stare così a questo punto della stagione. Nella considerazione collettiva la Roma era (è tuttora) una outsider. Della zona Champions, non certo del vertice puro. Se toppa una delle quattro accreditate - strisciate più Napoli - può inserirsi. Questo si dice(va). I valori quelli sono, c’è poco da girarci intorno. Ma se Celik rievoca più Garrincha che gli insulti presi nei tre anni precedenti; se Hermoso mette in soffitta la versione abulica dei primi tre mesi qui e risfodera quella atletista; se Wesley piega i pregiudizi, arando entrambe le corsie e costringendo Saelemaekers a girargli al largo per almeno mezz’ora; se la classe operaia va in paradiso, allora l’utopia diventa realistica. Perfino nella serata storta della nobiltà calcistica di Dybala & bros. Dopo un quarto di campionato sappiamo che un altro mondo è possibile con questa serietà. Siamo a tanto così.
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