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Sacrificio e sudore: per favore, salvate il soldato Bryan

Le parole di De Rossi sul suo conto nel giorno della conferenza d’addio rappresentano una vera e propria garanzia. Non storcerò mai il naso parlando del numero quattro

, di LaPresse

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12 Novembre 2020 - 09:55

La Roma non è mai andata di moda. Una risalita controcorrente, la strada meno battuta, nessuna scorciatoia. Qualcosa da vivere intensamente, senza compromessi. Se ci penso non credo di conoscere un solo tifoso della squadra della città eterna di quelli che si chiedono, a fine giornata, «Ma che oggi giocava la Roma?!?» perché, se giocava la Roma, uno è lì ad aspettarla. Contando i minuti. E se non ci potrà essere con il corpo ci sarà, comunque, con la mente. Con il cuore.

E pure con un Gaviscon sempre a portata di mano perché del tormento ne siamo gli amanti prediletti. Di questa cosa – di questo nostro profondo senso d'appartenenza – ne è pregno il terreno dove si sono aggrappate le radici del nostro essere romanisti: «Non molleremo mai». Per questo, certe volte, alcuni atteggiamenti non riuscirò mai a comprenderli. Perché noi siamo quelli che dissacriamo il più forte. Ma della squadra avversaria. E sosteniamo, sempre, il nostro giocatore più in difficoltà. Quello che se cade noi lo aiutiamo a rialzarsi e in quella caduta, da queste parti, può esserci di tutto: un infortunio, una autorete, un errore madornale. Non importa.

E addio al mito del calciatore con cui siamo cresciuti, ormai – di quelle stelle – non è rimasta manco più la polvere. Ci importa della Roma. Di quelli, causa/effetto, che per lei accarezzano il pallone. Di quelli, pure, che per quella maglia si sbattono infradiciandola con il loro sudore. Questi – quelli che non parlano, che non finiscono mai sulle prime pagine e che, probabilmente, non segneranno mai il gol decisivo – c'appartengono per indole e volontà di resistere: combattendo.

C'è dentro tutta questa lunga premessa nel motivo per il quale io non storcerò mai il naso parlando di Bryan Cristante. No, non è il mio giocatore preferito. E sì, pure io ho imprecato in diverse lingue quando a Genova ha mancato il – facile – gol che avrebbe chiuso la partita. Ma è uno che per la Roma si danna, uno che l'allenatore lo piazza in dieci ruoli differenti e lui non chiacchiera, esegue. Bene? Male? Quasi non mi interessa. Il calcio non è un film ed io non sono un critico cinematografico: sono un tifoso. Sostengo, sprono, incito. E se vedo uno che s'avvelena su ogni pallone – pure a dispetto, certe volte, di una espressione che tradisce stati d'animo differenti – non avrò mai la tentazione di percularlo, di voltargli le spalle, di fargli mancare il mio applauso.

Quando parlo di Roma, se penso al "Romanismo", Daniele De Rossi è la mia stella polare. E torno, allora, al giorno della sua conferenza stampa d'addio – ma quale addio, arrivederci. E quando tornerà non lo chiamerò ritorno. Perché per me lui non se ne è mai andato – per sbobinare le parole che proprio lui aveva dedicato al centrocampista friulano: «Io ne voglio altri cento di giocatori come Bryan Cristante. Perché anche se non è nato a Roma ci mette l'anima, da romanista». Questo sigillo, per me, è una garanzia.

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