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Futre: "Sognavo la Roma e avevo un accordo con Viola. Saltò tutto per una foto"

Intervista all’asso portoghese che ha fatto innamorare i tifosi di mezza Europa a cavallo fra gli Anni 80 e 90: rivelata un’antica passione per i giallorossi

Paulo Futre

Paulo Futre

17 Novembre 2018 - 08:44

Un solo avversario è riuscito a fermare la prorompente genialità di Paulo Futre: il destino. Vicino alla Roma nel 1988, il campione portoghese ha subìto proprio in Italia l'infortunio che ha crudelmente compromesso la sua carriera ad appena 27 anni, nella gara d'esordio con la maglia della Reggiana. «Dopo la prima operazione non sono più tornato lo stesso», ammette Futre dall'altra parte del telefono. Con lui abbiamo parlato di Italia-Portogallo, ma la partita di questa sera si è quasi subito trasformata in un pretesto per respirare calcio a pieni polmoni attraverso i suoi racconti.

Italia-Portogallo sarà decisiva per il primo posto nel girone. Che partita si aspetta?
«Sono due squadre storiche e mi aspetto sempre una grande partita. A noi basterebbe un pareggio, mentre l'Italia deve vincere se vuole arrivare prima. Credo che sarà una grande partita, anche senza Ronaldo. Cristiano è Cristiano, ma anche i giovani che stanno giocando ora in Nazionale sono molto forti. Stanno facendo molto bene senza Ronaldo, che può riposarsi tranquillamente».

Lei ha affrontato l'Italia di Roberto Baggio. La crisi della nazionale azzurra può spiegarsi anche con l'assenza di un grande numero dieci?
«Baggio, Baresi, Maldini. Quella era veramente una grande Italia. Immagino sia stato un incubo per tutti gli italiani vedere quello che è successo contro la Svezia. Oggi è un'Italia totalmente diversa. Baggio, Giannini, Totti, Del Piero sono stati dei grandi numeri dieci. Stiamo parlando degli ultimi fenomeni con il numero dieci. Oggi non c'è nessuno dell'Italia che si avvicini minimamente a loro, nessuno».

Qualcuno che si avvicini a lei c'è?
«Sono stato uno dei migliori della mia generazione, ma sono sicuro che c'è qualcuno simile a me. In Portogallo credo che Bernardo Silva sia un mancino incredibile. Qui dicono che lui sia il quarto grande mancino della storia del Portogallo. Il primo è stato António Simões, che ha reso grande il Benfica insieme a Eusebio. Dopo c'è Fernando Chalana. Poi ci sono io e adesso c'è Bernardo».

Durante la sua esperienza in Italia (novembre 1993-estate 1995) iniziava a brillare la stella di Francesco Totti. Aveva già intravisto in lui le giocate di un futuro campione?
«Sì, ho capito subito che sarebbe diventato un grandissimo giocatore. Credo che Totti rappresenti un qualcosa di incredibile. Ogni volta che vedo la sua ultima partita e quel giro di campo finale, resto senza parole. Penso che nessun altro calciatore nella storia abbia vissuto qualcosa di simile. È stata una cosa pazzesca, da piangere per l'emozione. Stiamo parlando di un giocatore unico, forse l'ultimo romantico che ha giocato tutta la vita per la maglia che ama. Ora c'è De Rossi, un grandissimo calciatore. Totti poteva andare al Real Madrid in ogni momento della sua carriera. Avrebbe potuto vincere anche qualche Pallone d'Oro, ma forse non avrebbe mai avuto quello splendido tributo dello Stadio Olimpico, quel momento unico che ha vissuto quasi come un Dio del calcio».

È vero che da giovane sognava di venire alla Roma?
«Sì. Dopo il Mondiale del 1982 il mio grande sogno era di giocare nella Roma. Avevo sedici anni e mi ero innamorato di Bruno Conti vedendolo giocare. All'inizio io e i miei amici tifavamo Brasile, ma dopo aver visto Bruno io ho cambiato idea e ho iniziato a tifare Italia, facendo arrabbiare i miei amici. Ero solo contro tutti durante Italia-Brasile».

Qualche anno dopo il sogno stava per realizzarsi…
«Il presidente Viola venne a casa mia a Madrid ai tempi dell'Atletico. Avevamo trovato l'accordo, ma i due club non raggiunsero l'intesa. Scoppiò un casino perché un giornalista di Marca che aveva saputo di questo incontro convinse il mio vicino a farlo entrare in casa per scattare delle foto. Siamo finiti sul giornale, i tifosi e il presidente Jesus Gil si arrabbiarono molto. Finire insieme al Presidente della Roma sulla prima pagina di uno dei giornali spagnoli più importanti mi ha creato diversi problemi con la tifoseria. Stiamo parlando di marzo-aprile del 1988 se non ricordo male».

Alla Roma attuale è stato accostato Hector Herrera del Porto. È un giocatore da Serie A?
«Non ho nessun dubbio. Stiamo parlando di un ottimo calciatore, sta facendo benissimo, è cresciuto tanto. A parametro zero sarebbe un affare per tutti, ma penso che il Porto alla fine riuscirà a trovare un accordo perché l'addio di Marcano gratis è stato un caso quasi unico. Credo che si possa arrivare a un accordo, magari per venderlo meglio in estate. Ma questa è solo una mia opinione».

Torniamo al passato. Nel 1993 l'arrivo in Serie A con la maglia della Reggiana. Che ricordi ha dell'Italia?
«Ho sperimentato emozioni contrastanti lì, vivendo il più brutto e il più bel momento della mia carriera. L'infortunio al ginocchio alla mia prima presenza in Serie A (contro la Cremonese il 21 novembre del 1993, ndi) è stato un vero e proprio incubo. Avevo 27 anni e potevo dare ancora molto al calcio. Dopo la prima operazione non sono più tornato lo stesso. Ricorderò per sempre i tifosi della Reggiana, per come mi hanno ricevuto e perché in un anno e mezzo mi sono stati sempre vicino e mi hanno dato forza. Sono riusciti a mettersi nei miei panni e a capire quello che stavo passando».

Il momento più bello?
«Quando ho firmato con il Milan nel 1995. Quella era una grande squadra. Avevo alle spalle due operazioni al ginocchio, ma sono riuscito ad andare nel miglior club del mondo in quel momento storico».

Come nacque l'idea Reggiana?
«Scoppiò il caso corruzione al Marsiglia, che fu costretto a mettere tutti sul mercato. In Italia la sessione di riparazione si faceva a novembre. All'epoca una squadra poteva tesserare al massimo due stranieri e tutte le grandi squadre italiane avevano le caselle occupate. Il Milan già mi seguiva e se non ci fosse stato l'infortunio al ginocchio, mi avrebbe preso dalla Reggiana nell'estate del 1994, un anno prima rispetto a quanto successo».

Tornando al Pallone d'Oro, nel 1987 lo vinse Gullit e Maradona non la prese bene…
«Sì, è vero. Disse che dovevo vincerlo io, ma tutto il mondo pensava che lo meritassi, perché avevo fatto una grande stagione con il Porto, vincendo la Coppa dei Campioni contro il Bayern Monaco. Poi mi sono trasferito in Spagna e nei primi tre mesi all'Atletico Madrid stavo andando molto bene. Battemmo il Real per 4-0 (con un gol e due assist di Futre, ndi) e vincemmo per 2-1 in casa del Barcellona. Gullit era un grandissimo calciatore, su questo non ci sono dubbi. Aveva fatto bene col Psv e stava andando alla grande nel primo trimestre con la maglia del Milan, ma credo che tutti pensavano che lo meritassi io».

Se dico 27 giugno del 1992 cosa le viene in mente?
«Un'altra gara indimenticabile. La finale di Coppa del Re contro il Real Madrid vinta per 2-0. Penso di essere stato un giocatore da grandi partite, anche se qualcuna ne ho sbagliata. Per noi dell'Atletico una finale al Bernabeu valeva come una Coppa Campioni. Ho fatto una partita incredibile, segnando il gol del raddoppio».

La figura di Aragones fu fondamentale in quell'occasione. Cosa fece la mattina della partita?
«Lui era un grande motivatore, il più grande che io abbia mai avuto. Si giocava alle 21 e alle 9 della mattina mi svegliò per dirmi che dovevamo vendicare Pizo Gomez, un nostro compagno di squadra che due anni prima era stato umiliato e insultato a un semaforo da tre o quattro calciatori del Real Madrid, tra cui Michel e Hierro. Mister Aragones mi ha svegliato ricordandomi questa storia, dicendomi che dovevo essere l'incubo del Real perché quello doveva essere il giorno della grande vendetta. E lo è stato».

 

 

 

 

 

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