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26 marzo 1904-26 marzo 2020

Attilio Ferraris IV, un santo

La storia del nostro primo capitano che ha giocato come ha vissuto: dando tutto, morendo sul campo. E quel bacio in fronte da Fuffo che zitti' Testaccio

Attilio Ferraris IV con la maglia della Roma a Testaccio

Attilio Ferraris IV con la maglia della Roma a Testaccio

26 Marzo 2020 - 17:02

Attilio Ferraris IV era un santo. Fumava. Appoggiava sempre le sigarette e sul bordo del biliardo della sala Rastald accanto a piazza dell'Unità e a chi gli chiedeva se poteva prenderne una rispondeva: «Nun rompe li cojoni e pijatela». Al biliardo si metteva sempre sotto la finestra «così vedo quanno fa giorno». Perché poi probabilmente aveva la partita della Roma. Giocava e spesso era il migliore in campo. Non tanto per la tecnica, piuttosto per la prestanza fisica, perché dava tutto, perché la foga agonistica impressionava compagni e avversari, pure se la notte l'aveva passata in bianco.
Pozzo una volta lo volle in Nazionale proprio per questo e andò a cercarlo quando era già il 1934 (il 15 aprile durante un Roma-Genoa non giocato): «Ma io fumo sessanta sigarette al giorno, commendato'». «Senta, Ferraris, la sua vita privata non mi interessa, ma in campo mi deve spaccare la palla». Come un segno della croce: il ct aveva capito il miracolo che era Attilio Ferraris IV. Un'altra volta lo incontrò di notte nella hall del ritiro di Asti, Attilio se ne stava andando: «Ma come mai lei qui, Ferraris?». «Me so' arzato presto».
Lui giocava di notte e di giorno. Giocava sempre e a tutto. A calcio. A poker. Al casinò. La partita era la vita. Una volta a Marsiglia prese i dieci franchi che aveva avuto come premio e se li giocò tutti: dopo un'ora ne aveva vinti 510, dopo un'altra stava a zero: «Embè, è annata male». George Best "de noantri"? No, meglio: "Er più". George Best non giocava a boccette, lui sì. E poi George Best mica è mai diventato campione del mondo.

È l'epitaffio della sua tomba al Verano: «Attilio Ferraris campione del mondo». Solo i santi al cimitero sono campioni del mondo. Ma non per questo Ferraris era un santo.
Attilio aveva coraggio. Era campione nel mondo della vita: la succhiava, roba da poesiuole da attimo fuggente. O chiacchiere da bar. Ne aveva aperto uno a via Cola di Rienzo, tanto per, un po' convinto da Carpi un po' da Sacerdoti. Sulla lavagna aveva scritto "Attilio telefona" per far sapere come erano andate le partite. Sennò c'era la radio.

L'11 maggio 1930 con l'Italia vinse 5-0 sull'Ungheria, al quinto gol Attilio si fermò in mezzo al campo, gli si avvicinò preoccupato Meazza: «Cus te ghet? Te stet mal?». Lui rispose: «Sto pensanno si mi' fratello se sarà ricordato d'accenne la radio ar bare...». Tu chiamale se vuoi preoccupazioni. Come quelle d'amore. Amava ed era amato.
Una volta nel marzo 1932 con Bernardini, Fasanelli e Chini lasciò il ritiro a Torino il giorno prima della partita per andare a vedere Josephine Baker. Una questione di cuore, è solo seguendo quello che ha vissuto. Ma altro che pose. Verità d'appendicite più che romanzi d'appendice. Attilio Ferraris ha vissuto da Attilio Ferraris ed è morto come e dove ha vissuto: sul campo, dopo un colpo di testa al 43'. Aveva quarantatré anni. Il cuore aveva battuto troppo. Prima di giocare quella partita a Montecatini fra vecchie glorie disse: «Nun me fate fa la fine de Caligaris». Umberto Caligaris era morto sul campo in una gara amichevole. Una battuta sul punto di morte senza neanche saperlo: una battuta sul punto di morte e così pure la morte è battuta. Santo!
I santi non ammazzano, muoiono. E gli amici li piangono, dopo averli pregati chissà quantevolte. Fulvio Bernardini appresa la notizia non disse una parola, ma scrisse queste: "Uomo di combattimento, irriducibile lottatore sei sempre stato, nella vita e nello sport. E anche per allontanarti definitivamente da questo mondo da combattente sportivo pagando con la vita un omaggio alla passione inesauribile. Con la tua scomparsa c'è oggi nel mondo una grande tristezza in più. Addio, Attilio".

Era nato e cresciuto a Borgo Pio, sotto San Pietro, con un prete, fratel Polfirio, che insegnava la vita ai ragazzini della Fortitudo. (...) Una volta a scuola venne cacciato perché la maestra di matematica aveva sbagliato qualcosa nel compito che aveva assegnato: era stato l'unico a farlo notare. E aveva ragione lui, non la maestra. Roger Waters avrebbe apprezzato, Francois Truffaut l'avrebbe fatto protagonista nei suoi 400 colpi. Attilio Ferraris ne aveva esplosi anche di più. Tutti a salve. Tutti in fumo. Tutti al gioco. Tutti per i suoi compagni, in campo così come in classe: il primo a dire «No, Signora». Il primo a dire no soprattutto alla Vecchia Signora. Pensate che questa storia è iniziata così. La "storia storia", quella dei Figli di Roma, capitani e bandiere. Inizia da suo padre Secondo, che non era di Roma ma piemontese. Attilio era già un fenomeno. A casa Ferraris bussano quelli della Juve, un avvocato per conto della proprietà torinese va da papà Secondo e gli offre tutti i soldi che vuole. «Io non vendo mio figlio». Capito?
Figlio di Roma e basta Attilio. Figlio di Roma e capitano. Anzi. Primo capitano della nostra storia. E se tu sei il suo primo capitano e così figlio di Roma, per forza gli altri so tutti fiji de' na mignotta. Almeno quelli che ne parlano male o quelli che non lottano per lei. Una volta dopo un primo tempo giocato male col Casale, Attilio glielo disse ai compagni: «A fiji de na mignotta, ve volete sveglia'!». Lui era sempre sveglio. AS Roma di giorno e notte. So' detti romaneschi che hanno marchiato i nostri per sempre: «Chi se ritira dalla lotta è 'n gran fijo de 'na mignotta, chi dalla lotta desiste fa 'na fine molto triste». (...) La fine non so se è triste: ci siamo scordati di dire perché Attilio Ferraris era un santo.

Credo che a Sergio Leone non abbiano mai raccontato la storia di Attilio Ferraris IV e di Fulvio Bernardini, altrimenti quel capolavoro totale di "C'era una volta in America" l'avrebbe girato a Testaccio, solo che i protagonisti sarebbero stati due Noodles. Al fondo del fondo, nel cuore della storia della Roma, c'è una bellissima storia di amicizia. Iniziata per strada quasi cent'anni fa e che durerà finché uno la racconterà.
È il 16 aprile del 1919 a Roma. Fulvio Bernardini sta sul tram diretto verso la Madonna del Riposo dove giocherà con l'Esquilia contro la Fortitudo. Attaccato letteralmente al tram (ma in bicicletta) c'è Attilio Ferraris, lui giocherà con la Fortitudo contro l'Esquilia. Giocano. Ferraris segna il primo gol della partita, a Bernardini che sta in porta. Invece di una rivalità nasce l'amicizia. È a fine partita che Attilio chiede a Fulvio: «Perché non vieni a giocare con la Fortitudo?», perché Bernardini dovrà fare altre strade per fare la storia della Roma. Ferraris e Bernardini faranno tutto insieme. Nemmeno la cosa più brutta da immaginare intaccherà la loro amicizia, e nemmeno la fede di Attilio, anzi è di fronte al passaggio di Ferraris alla Lazio che Bernardini dimostrerà cos'è quel sentimento che li lega, e che ci lega. (...) Il 18 novembre 1934 il ritorno a Testaccio con gli «altri» contro la sua Roma. La reazione dei romanisti è quella più logica e sentita: fischi. Amore e rabbia. A quel punto Bernardini in mezzo al campo, davanti a tutti, prende Attilio per la testa e se lo bacia in fronte. Applausi. Non più fischi, ma applausi. Dopo due anni sbagliati alla Lazio, il direttore sportivo Vincenzo Biancone lo vide in mezzo ai tifosi a Testaccio a vedere la Roma. Ferraris stava lì con i tifosi della Roma a vedere la Roma. Gli mancava. Nel 1938 Attilio Ferraris IV torna a essere quello che è sempre stato: romanista. Amava la Roma e la maglia della Roma, e anche per questo le regalava ai ragazzini, soprattutto a quelli di Borgo: per la Befana li riempiva di regali. Amava i bambini perché lui Figlio di Roma, figli non li ha potuti avere. Una volta alla sorella disse scherzando con una vena malinconica: «Mo' te ne porto via uno». Figlio di Roma che donava la bandiera. Quando morì non c'era più una sua maglia, allora Fulvio Bernardini ci mise la sua sulla bara. Un altro modo di baciarlo in fronte. Per sempre.

Poi trent'anni dopo, nel 1975, scrisse queste parole:
«Caro Attilio, nel leggere la storia della tua vita mi sono convinto che la morte è ingiusta... Che tu abbia fatto una grande carriera nel calcio era scontato; che tu piacessi alle donne tutti se ne potevano accorgere... che tu fossi abile al biliardo e al poker se ne accorgevano quelli che si volevano misurare con te... Ma l'uomo vero, l'uomo coraggioso, l'uomo generoso era riservato a una ristretta cerchia di amici ... I miracoli di altruismo che ti ho visto compiere negli anni sono tanti, e per raccontarli ci vorrebbe un libro su di te. Per quel disprezzo per i tuoi personali interessi e per l'amore che portavi agli altri, io dico che eri un santo». È per questo che Attilio Ferraris era un santo, per la parola di un amico.

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