Interviste

Gentile, Gobbetti e Federici raccontano Libero De Rienzo: "Quelle volte allo stadio con Picchio..."

In occasione della presentazione del documentario “Libero sempre comunque mai”, Riccardo Gentile, Laura Gobbetti e Alessio Federici hanno raccontato la storia dell'attore romanista scomparso nel 2021

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Iacopo Savelli
09 Novembre 2025 - 07:00

Il 10 aprile 2002 Libero De Rienzo veniva premiato a soli 25 anni con il David di Donatello come miglior attore non protagonista per il film di Marco Ponti Santa Maradona. Un premio che avrebbe conservato nel freezer di casa dopo averlo dedicato alla Palestina con un clamoroso gesto di rottura nei confronti del protocollo e dell’establishment istituzionale. 
La sua carriera poi ha preso una direzione unica e particolare: Libero non era interessato solo alla fama o alla popolarità, cercava verità, intensità, racconto. La sua passione per la regia, la scrittura e la fotografia lo portò spesso a scegliere il silenzio mediatico, la riflessione, l’esplorazione; il suo unico film da regista, Sangue – La morte non esiste, radicale, intimo, dolente è il manifesto più autentico della sua poetica.

Al Festival del Cinema di Roma è stato presentato il documentario “Libero sempre comunque mai”, un ritratto vivo, sincero e non retorico costruito attraverso le parole di chi lo ha conosciuto, amato, accompagnato nel suo percorso artistico e umano. Libero, classe 1977 e scomparso nel luglio 2021, era un grande tifoso della Roma, anche per questo Il Romanista ha deciso di unirsi a quanti hanno voluto ricordare a chi gli è stato vicino e a chi non lo ha conosciuto che lui era e resta molto più grande della sua assenza. Per questo abbiamo intervistato Riccardo Gentile, che ha avuto l’idea di raccontare la sua storia, e Laura Gobbetti, che ha scritto il film insieme a lui e ad Alessio Federici, che ne è stato il regista e che era amico di Libero dai tempi della scuola quando si ritrovarono compagni di banco.

Riccardo, quando è nata l’idea di questo documentario avevi già capito cosa c’era dietro l’attore?

«Mi aveva colpito lo sguardo, la faccia, diciamo che pur partendo dal presupposto che recitava ed era bravo e simpatico, avevo la sensazione che fosse una persona speciale, vera. Una cosa che ho avvertito a pelle».  

Laura, scrivere a quattro mani un film che coglie così tanti aspetti intimi di una persona è stato complicato? 

«Non lo è stato, credo che Riccardo sia d’accordo, perché nella maggior parte delle cose io e lui abbiamo le stesse idee e siamo disposti a trovare sempre un punto d’intesa, ad accogliere l’idea dell’altro, capirla e restituirla. Abbiamo trovato una sintesi tra due sensibilità comunque molto affini anche di fronte a pensieri diversi. Poi avevamo alle spalle tutto il background che ci ha raccontato Alessio che conosceva Libero dai tempi della scuola, era stato suo compagno di banco, quindi la fotografia del personaggio che volevamo raccontare era chiara. E una grande mano l’ha data la straordinaria capacità di Cristiano Lombardi, il montatore di questo documentario, che non solo ha percepito perfettamente quelle che erano le nostre idee, ma le ha amplificate più di una volta».

Alessio, voi eravate compagni di banco al Mamiani, un liceo di Roma con una tradizione politico sociale importante. Ha avuto un impatto anche su di voi?

«Ma certo, assolutamente. Il Mamiani è stato detonante nella vita di tutti come stimoli culturali, come confronti sociali, anche perché comunque era una scuola, ancora non si diceva “radical chic”, trasversale. Era a due passi dalla stazione degli autobus del Cotral e quindi c’era anche tanta gente che veniva da fuori Roma; quel miscuglio di realtà diverse ci ha riempito la testa, il cervello, il cuore e l’anima e col tempo ci ha fatto sviluppare un senso etico, un senso sociale particolari». 

Senti nel film molti dicono che Libero sarebbe diventato un grande regista, mi spieghi perché? 

«I registi, quelli bravi hanno istinto e mettono i loro film davanti a tutto e in questo lui era molto bravo. Il primo film che ha diretto era disturbante, andava contro tutto e tutti e che però rispettava quello che era lui. Quindi le potenzialità erano veramente alte». 

Essere personaggi contro può far diventare una persona respingente nei confronti di chi la pensa diversamente. Come ha fatto Libero a non diventare così? 

«Picchio non era “radical chic” che nell’accezione comune è sinonimo di sinistrorso o comunista quando invece dovrebbe essere utilizzata per identificare persone che appartengono a una borghesia molto più conservatrice di quello che si pensi. Picchio era anarco chic in tutte le sue scelte, non radical chic». 

Picchio e Libero erano la stessa persona? 

«Pasquale e Libero erano la stessa persona che diventava Picchio perché si chiamava Pasquale Libero De Rienzo. Pasquale perché si doveva rispettare l’origine familiare, Libero perché i genitori avevano respirato l’aria di certi movimenti. E non avrebbero potuto scegliere un nome più giusto per definirlo».  

Riccardo e Laura, le interviste vi hanno aiutato a capire dove volevate arrivare, qual era la strada da prendere? 

«Inevitabilmente, nel senso che durante il percorso sono venute fuori cose che non sapevamo o non ci aspettavamo. I contenuti erano realmente efficaci, molto divertenti, molto amari ed era tutto molto accomunante: i vari racconti avevano tra di loro una corrispondenza non necessariamente univoca, perché ognuno poi ha la propria opinione. Chiaramente siamo partiti dai racconti di Alessio e quello che avevamo visto perché molto si basa sulla filmografia. Purtroppo tante cose non ci sono per questione di tempo». 

Ce n’è una in particolare che vi dispiace non ci sia nel film?

«A me (Riccardo, ndr) dispiace che non ci sia Alessio anche se in realtà è dentro molte delle cose che abbiamo raccontato. Lui ha preferito così». 

Alessio, perché non hai voluto apparire? 

«Per tante motivazioni. La prima è che io vengo da un mondo cinematografico che è completamente l’opposto di quello di Picchio. E andare ad un festival a raccontare Picchio mettendomi dentro al film, sarebbe stato un cedimento al mio ego. Mi è sembrato più giusto mantenere uno sguardo leggermente più oggettivo anche rispetto al montaggio e alle storie. Omaggiarlo in questo modo in un mondo di ego riferiti, per una volta fare mezzo passo indietro mi è sembrato l’unico regalo che potevo fargli». 

Senti, considerando il personaggio quello che disse sulla situazione in Palestina in occasione del David di Donatello e i tempi che stiamo vivendo, è stato difficile trovare la produzione? 

«Ti dico una cosa: la Lazio, le guardie, i coloni israeliani è l’adesivo che ho adesso sul motorino e che riprende e estende uno slogan goliardico della curva. Con quello che sta succedendo oggi, dire in un premio o qualunque altro posto quello che lui disse vent’anni fa, diventa quasi necessario. A Venezia la madrina non vuole prendere posizione e le dicono che non può farlo, quindi sei quasi più obbligato a prendere posizione che a non farlo. Quando lo ha fatto lui era esattamente il contrario perché in quel momento non era così universalmente o comunque ampiamente accettata una presa di posizione così detonante, l’ha detta quando non si poteva dire e oggi ha un valore enorme. In un paese come l’Italia dove gli attori giocano a fare le star senza che ci sia uno star system, dire quella roba in quel momento è stata una doccia gelata per chi ascoltava con le spalline e i capelli cotonati. E lui non disse bravi quelli di Hamas e cattivi gli israeliani, ma che bisognava mettere nelle condizioni di intervenire chi avrebbe dovuto soccorrere e curare le persone. Una cosa universale cui nessuno dovrebbe dire di no». 

Dal film viene fuori qualcosa che secondo me non c’è quasi più: i sentimenti le emozioni la vicinanza anche nelle diversità la capacità di comprendere l’altro, di non giudicarlo. 

«È vero, nel film c’è gente con idee, modi di pensare ed estrazioni sociali diversa. Anche persone che tra loro si detestano. Picchio è riuscito ad essere un comune denominatore di una trasversalità che mette davvero spavento: piaceva a Sermonti e piaceva a Sartoretti che sono due tra le persone più distanti che esistano in assoluto. Questa cosa mi ha colpito profondamente».  

Adesso ho bisogno che qualcuno mi racconti il suo romanismo…

«Allora, nell’ultima scena di Santa Maradona vanno allo stadio a vedere la Juve e lui disse a Marco Ponti, il regista del film, che la maglia bianconera non se la sarebbe mai messa. Come se non bastasse era il 17 giugno, una data abbastanza importante per noi romanisti e quindi il compromesso a cui arrivarono fu quello di fargli mettere la maglia dell’Olanda di Edgar Davids. Io sono abbonato in curva da quando ho sette anni, sono andato allo stadio con Picchio, l’ho fatto entrare senza biglietto spingendolo ai tornelli oppure con la tessera di mia madre. Forse un anno si abbonò anche lui, verso la fine del liceo, poi con gli anni la sua passione per il calcio si era un po’ affievolita. Ma il ricordo più bello anzi, il giorno più bello della mia vita, è quando ho segnato il gol dell’1-0 nella sfida tra Mamiani e Convitto dove Picchio era stato un anno prima di scappare. Altro che il giorno della nascita dei figli: quel viaggio di ritorno dall’Acqua acetosa in motorino con Picchio che cantava e urlava, lui che non giocava a pallone ma ci veniva a vedere, è uno dei ricordi più belli che ho di Picchio». 

Ti manca? 

«Sì, mi manca. Noi eravamo legati anche dal fatto che una nostra compagna di classe è morta in un incidente mentre stava in motorino dietro di me, per certi versi avevamo già condiviso un dolore. Adesso più che altro mi fa soffrire l’idea di quello che non potranno avere i suoi figli». 

Riccardo, vuoi aggiungere qualcosa?

«Guarda, riprendo una frase che dice Massimiliano Bruno nel documentario: “Picchio teneva a distanza gli stronzi”. Ecco, io che non lo conoscevo, che appartengo a un altro mondo, sono felice di aver contribuito a raccontare una persona così».

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