Peccenini: "La squadra è ancora incompleta, sia dato a Gasp ciò che chiede"
L'ex calciatore, in giallorosso dal 1972 al 1980, in esclusiva a Il Romanista: «Manca il colpo che possa fare la differenza. Spero in un finale diverso per Pellegrini»

(IL ROMANISTA)
Franco Peccenini, 72 anni compiuti qualche giorno fa quando sui social sono rimbalzati centinaia di messaggi di tifosi che non hanno dimenticato i suoi nove anni alla Roma. Di quella che è stata la sua storia in giallorosso e che, con un pizzico di buona sorte in più, avrebbe potuto essere, parleremo tra poco, prima gli auguri a nome di tutta la redazione de Il Romanista.
Ciao Franco, grazie per avere accolto la richiesta di passare un po’ di tempo con noi e ancora buon compleanno. Come stai?
«Benissimo e grazie a Il Romanista per gli auguri. Non sono riuscito a rispondere a tutti quelli che mi hanno scritto: è incredibile quanta gente ancora si ricordi di me che non ho lasciato la Roma l’altro ieri. La sera del mio compleanno, il 16 agosto, ero a Campo de’ Fiori quando mi ha squillato il telefono, era Picchio De Sisti. “Ah - gli ho detto - mi hai chiamato proprio sul filo di lana”, e lui si è scusato per il ritardo. Giancarlo è stato un compagno di squadra eccezionale ed è una persona onesta, sincera, diretta. Non gli ho mai sentito dire una bugia, né l’ho mai visto rifiutare una responsabilità. Non ha indossato la fascia, che era sul braccio di Cordova, ma è stato capitano della Roma in tutto e per tutto. Come un grande capitano è stato Sergio Santarini che qualche mese fa, con altri compagni dell’epoca, siamo andati a trovare a Cesenatico; è stata una giornata bellissima, nel segno di legami che durano per sempre. Per il resto gioco a golf, quando posso vado al mare, seguo il calcio e lo commento con i vostri colleghi».
Stasera si parte con Roma-Bologna, come la vedi?
«La Roma mi sembra ancora incompleta. Leggo e sento che Gasperini vuole altri quattro-cinque giocatori e quelli che sono arrivati finora non credo possano trasformare la squadra. Sono sicuramente buoni giocatori, ragazzi che hanno prospettive importanti, ma non vedo il colpo che fa la differenza; spero si faccia di tutto per dare a Gasperini quello che chiede. Oggi è pieno di squadre che giocano a pallone mentre quelle che giocano a calcio sono pochissime; parlo di squadre che non sono solo corsa e forza fisica, ma anche tecnica e ricerca del gioco. L’Atalanta è stata tra le poche che in questi anni ha giocato a calcio, ma per raggiungere quei livelli servono tempo e fiducia nell’allenatore. Ho incontrato Gasperini, che conosco da quando allenava le giovanili della Juventus, al Tre Fontane quando c’è stata l’amichevole col Cannes. Abbiamo parlato un po’ e mi è sembrato tranquillo e motivato. Certo le amichevoli non sono state esaltanti: ho visto una squadra che ancora fa fatica con certi movimenti sia in fase offensiva sia in quella difensiva, ma il calcio estivo è molto diverso da quello in cui sono in palio punti e qualificazioni. Perciò nessun allarme, probabilmente è fisiologico che finora sia andata così».
Perché, secondo te, Ranieri ha voluto un allenatore così diverso da se stesso?
«Con Claudio siamo stati compagni di squadra alla Roma e al Catanzaro, conosco benissimo le sue idee e la scorsa stagione ha preso in mano una squadra devastata psicologicamente, facendo cose eccezionali. Sa tutto di Roma come pochi altri, compreso il fatto che qui serve il bastone e non la carota, ovvero un allenatore che non si faccia condizionare da nulla, esattamente com’era Capello. Ho detto prima che mancano alcuni giocatori per le esigenze di Gasperini, ma la rosa che gli ha lasciato in eredità Ranieri ha dimostrato di avere dei valori. Numericamente e anche qualitativamente la base c’è: andrebbe solo completata in alcuni ruoli, perché l’allenatore è una certezza».
Ti propongo qualche ballottaggio: Wesley o Rensch?
«A Wesley va dato un po’ di tempo: viene da un calcio completamente diverso, si deve ambientare e deve capire certi meccanismi, per cui col Bologna penso giocherà Rensch, anche se nei sei mesi passati non è che mi abbia convinto del tutto. Ma sto parlando di questo momento particolare, non di una gerarchia tra i due».
Ferguson o Dovbyk?
«Dico Ferguson senza nessun dubbio. Le prime cose che gli ho visto fare mi sono piaciute tantissimo: si muove, guarda in avanti, cerca lo spazio per farsi servire dai compagni. La prima impressione è di avere a che fare con un attaccante potenzialmente grandissimo».
Dybala o Soulè?
«La questione è esclusivamente fisica: se Dybala sta bene non ce n’è per nessuno, è il giocatore più forte della Roma e Gasperini ne è consapevole. Ma in questo momento tocca a Soulé, che è in forma e sta anche segnando con continuità».
L’obiettivo ragionevole sembra provare ad arrivare in Champions, su quale squadra pensi si possa fare la corsa?
«Il Napoli mi sembra fuori dai giochi: si è rinforzato molto, ha un bravissimo allenatore anche se ora dovrà trovare un sostituto per Lukaku e non sarà facile. Inter e Milan mi pare che pur faticando un po’ alla fine siano riuscite ad allestire organici importanti; perciò ti dico Juventus, che ad oggi considero un grande punto interrogativo».
Torniamo alla tua carriera nella Roma, nove anni e un unico rimpianto.
«Prima della Roma sono stato due mesi alla Fiorentina, ma soffrivo di nostalgia: telefonavo continuamente a casa dicendo che volevo tornare. Così sono andato da Dino Viola che era il presidente del Palestrina, il club dove ho iniziato, e grazie a lui e ad Antonio Sbardella che era il General Manager sono passato alla Roma. Vivevo nel pensionato di Ostia: vedere la mia famiglia e tornare a casa era molto più facile e sono iniziati i miei anni in giallorosso. Due titoli con la Primavera, l’esordio in A con Herrera, il terzo posto con Liedholm che valeva quasi uno Scudetto. Io e Francesco Rocca: io a destra e lui a sinistra, eravamo destinati ad una grande carriera e invece ci siamo rotti entrambi la cartilagine del ginocchio, un guaio che non si ripara nemmeno con le tecniche chirurgiche di oggi. Francesco si era lesionato anche tutti i legamenti e ha vissuto il calvario che sappiamo, io ho continuato a giocare per altri sette-otto anni, ma la gamba funzionava al 50% e ho danneggiato anche l’altra. Oggi ho le protesi a entrambe le ginocchia, a un’anca e alla schiena: lo sport fa bene se si fanno le passeggiate a Villa Borghese (ride, ndr). Nel 1980 vincemmo la Coppa Italia. Giocavo poco, mi voleva il Catanzaro, così andai da Viola per dirgli che volevo andarmene. Il Presidente mi voleva bene, mi aveva perfino regalato un fucile da caccia, di cui ero appassionato, e cercò in ogni modo di dissuadermi: “Franco, questa è casa tua: resta con noi, anche se giochi poco sei utile e ti vogliamo bene”. Niente da fare: sono andato a Catanzaro dove certo non ho giocato di più, le gambe non erano più le stesse. Fossi rimasto in giallorosso, magari sarei diventato anche io campione d’Italia. Tornassi indietro, mi taglierei la mano con cui bussai alla porta di Viola, ma non si può».
Quale è stato il compagno più forte con cui hai giocato?
«Guarda, io ero milanista e tra i mei idoli c’era Pierino Prati. Quando me lo sono ritrovato compagno di squadra non riuscivo a crederci, tanto ero emozionato. Pierino era un attaccante nato, fortissimo di testa, in acrobazia, imprevedibile sotto porta. Marcarlo in allenamento mi ha fatto crescere tantissimo come difensore. Se fossi riuscito a fermare lui durante la settimana, non mi avrebbe spaventato nessun avversario la domenica in campionato».
Franco, la maglia della Roma pesa?
«Ma quando mai… La maglia della Roma è un orgoglio, un traguardo unico e prezioso, è impossibile raccontare cosa si prova quando dal tunnel si esce sul prato dell’Olimpico con quei colori sulla pelle. La maglia della Roma è una responsabilità: va indossata con la consapevolezza di avere l’obbligo di fare il proprio dovere con serietà e dedizione. Cose che i tifosi riconoscono e restituiscono con l’affetto e la vicinanza, comunque vadano le cose».
Con Lorenzo Pellegrini è una storia finita?
«Spero di no: vorrei tanto che non fosse così, anche se temo sia probabile. Pellegrini è un figlio di Roma e della Roma, è un grande giocatore e un grande talento. Sia chiaro, anche io ho visto che da tempo non è più il calciatore che abbiamo conosciuto, ma credo che entrare in campo percependo lo scettiscismo di gran parte dello stadio, sentendo i mugugni dalle tribune al primo passaggio sbagliato, abbia contribuito al suo entrare in una spirale negativa. Il vero Pellegrini farebbe la fortuna di Gasperini, ma non so se l’allenatore abbia tempo per aspettarlo».
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