ASCOLTA LA RADIO RADIO  

De Rossi, l'intervista integrale: "Io sono di proprietà dei tifosi della Roma"

Il capitano della Roma in esclusiva a Il Romanista: "Per come sono fatto terrei tutti. Ma il gruppo è forte, possiamo vincere. La mia fascia di capitano è per Di Bartolomei"

De Rossi a Trigoria durante l'intervista, di Mancini

De Rossi a Trigoria durante l'intervista, di Mancini

15 Settembre 2018 - 16:30

Ma lo sgarro è sulla guancia destra o sulla sinistra?
«Scegli tu quale preferisci».

Ti sei pentito di aver parlato di maiali col microfono?
«Non mi pentirò mai di aver difeso un compagno di squadra o un allenatore o un dirigente se se lo merita. Non potrei mai pentirmi di difendere la Roma».

Ma il titolo non viene da qua, non c'è mezza polemica nelle parole e negli occhi di Daniele De Rossi. C'è sorriso. Sono quelle cose che sembrano difficili ma escono facili perché basta seguire verità, coerenza e cuore. Non si ha paura quando è così. Ha la calma dei forti, di chi ha fatto da tempo una scelta, di chi sta consapevolmente da una parte, di chi addirittura è arrivato quasi a una serenità in mezzo a anni, secoli di sturm und drang, mari mossi per carattere, per ambiente, per destino. Il titolo dell'intervista sono tanti, addirittura uno è già fatto, una specie di ritorno al futuro di un capitano che ha il sapore del passato, quello bello, e gli sta là davanti: "Io sono della Roma".

«Lo sai che vuol dire essere una bandiera della Roma? Significa una responsabilità enorme che ti porti sempre addosso. Significa che non hai scelta. Che quando in passato ho avuto offerte o quando stavamo sull'orlo del fallimento o quando le cose non andavano, quando ti chiama semplicemente qualcuno non sei tu che rispondi, perché tu, io sono della Roma nel senso di proprietà della Roma, "dei" tifosi della Roma. Io Daniele De Rossi sono di proprietà dei tifosi della Roma».

Bum. Un fuoco d'artificio biondo attorno all'ora di pranzo poco prima di andare a prendere a scuola la figlia. Mentre mangia una rosetta con la bresaola (mi pare).

@Mancini

"Io sono della Roma" è il titolo del Romanista che De Rossi ha sulla scrivania, la prima pagina dopo Roma-Barcellona col suo volto sorridente. Felice, pure troppo felice coincidenza ("Io sono della Roma anche dopo il 7-1 al Manchester, io sono della Roma sempre"). È sempre una questione di responsabilità: «Un giornale che ha un nome del genere ha una responsabilità grandissima. Dovete rispettare il vostro nome in ogni centimetro delle vostre ventiquattro pagine. È una responsabilità grossa come la mia quando gioco. Meno decisiva la vostra, però lo è».

Troppa. Alleggeriamo. Inseriamo una domanda di quelle necessarie ma che sostanzialmente interessano il giusto. La Nazionale: «So che a Roma non è percepita così, però è quasi come la Roma per me. Non lo nego, la Roma è più importante di tutto ma non mi creo problemi a dire che la Nazionale dovrebbe essere importante come il club per tutti. La vivo come fanno i brasiliani o gli argentini. Non non ho mai dato l'addio alla Nazionale, ho solo salutato tutti perché pensavo che con un nuovo allenatore non sarei tornato. Poi se mi richiama e sto bene, vado».

Vai. Finalmente la Roma, anzi no perché in quel primo tempo con l'Atalanta (e a Milano) non s'è visto niente. Che è?
«Le partite che vanno così male le devi analizzare come le partite che vanno tanto bene. Ci sono tanti fattori, semplicemente una serie di concause, ci sono partite sbagliate. Poi ci può essere un discorso tattico, atletico, ce ne sono mille. Con l'Atalanta per esempio loro avevano una preparazione di un mese e mezzo più di noi anche se erano seconde linee: sapevano che non avrebbero giocato col Copenaghen. Mentalmente erano liberi. Poi certo non puoi attribuire la cattiva prestazione solo al caso o a loro. Per niente. Noi siamo più forti di loro. Da capitano mi attacco alla reazione nel secondo tempo, la stessa che c'è stata col Milan. Difficile da spiegare lo so, ma sicuramente la squadra non molla, non ci tiene a farsi schiaffeggiare, questo è il lato positivo. Bisogna solo andare avanti. Andiamo avanti. Da capitano riparto».

Non sei preoccupato?
«Siamo romanisti. Siamo sempre preoccupati di cosa fa la Roma. Poi vinci tre partite e pensi che i problemi non ci sono più. E non va bene nemmeno quello. Sono preoccupato il giusto: se non ti preoccupi o non ti interessa o sei arrogante o sei presuntuoso».

Troppi nuovi? Troppe cessioni? C'è un legame da trovare?
«Il legame va bene, sono tanti, ma si integrano bene. Questo è un gruppo sano, aiuta i giocatori nuovi, li abbraccia e li accoglie in maniera spontanea e positiva. Fosse per me terrei sempre tutti i compagni di squadra, anche perché mi affeziono e quando un compagno va via mi dispiace. Poi ci sono idee del mister, del presidente, del direttore e bisogna mettere tutto insieme. Io queste cose non le posso sapere, forse neanche le devo sapere. Ma so che il gruppo c'è, che questi arrivati sono forti, che la squadra è forte».

L'ha fatta Ramon Verdejo Monchi.
«Il rapporto è corretto, cordiale, lui è il direttore, io sono il capitano. Sono un suo giocatore che non ha comprato ma confermato, quindi un suo giocatore. È stato un mercato movimentato, anche lui è sotto pressione, lo vedo, ma dobbiamo lavorare. Sta sempre dentro le cose, nello spogliatoio, vuole sapere tutto, è puntiglioso, prendersi cura di noi. Sono uno dei suoi primi interlocutori in quanto capitano».

E di Eusebio Di Francesco.
«Di Francesco è parte di tutto questo. Abbiamo parlato anche oggi, la forza nostra è che ci siamo già passati. Col lavoro, seguendo l'allenatore, con la nostra forza, lasciandoci trascinare dallo stadio siamo usciti meglio di come stavamo e di quello che potevamo sperare. Mi dici di spiegarti Roma-Atalanta... Vai con la mente a Roma-Atalanta del 6 gennaio, e poi a Roma-Samp, a Roma-Milan, anche a Roma-Fiorentina, a quello che si diceva... Ci sono stati momenti duri ma poi se pensi alla scorsa stagione pensi a una stagione super emozionante. E l'abbiamo fatta con i tifosi e seguendo l'allenatore. Lo scorso anno ne siamo usciti con i lustrini sul petto. Il mister è dispiaciuto e deluso, ma non demoralizzato. Il calendario non è stato semplice, ma tanto come giri giri sono 4 punti in 3 partite. Andiamo avanti, speriamo che dalla prossima partita saranno 7, poi 10, poi 13 e così via».

Per arrivare a cosa? 
«Per provare a vincere».

@Mancini

La Juventus è di un altro pianeta?
«Di un altro pianeta no, sicuramente è più forte delle altre. A livello economico possono permettersi investimenti diversi da tutte le squadre italiane, da quel punto di vista viaggiano su un altro binario. Però poi dobbiamo giocare, fare un campionato, mettere la palla in campo, penso di poter dire che hanno faticato anche loro con Chievo e Parma. Dobbiamo provare ad arrivare assolutamente tra le prime 4, che è il nostro livello, dobbiamo confermarci squadra da Champions, poi vediamo: vinciamo la prossima partita, quella dopo facciamo punti e vediamo. Vinciamole tutte e poi magari se perdiamo gli scontri diretti con loro arriviamo a -6. Non possiamo pensare che sono di un altro pianeta, dobbiamo pensare di poter fare un miracolo, non perdere gli stimoli. Quasi come abbiamo fatto l'anno scorso».

Vincere, una parola che è diventata necessaria.
«Io sono 18 anni che sto qui, e ogni volta che esce il calendario mi faccio la tabellina mia e spero di vincere il campionato. A volte ci ho creduto fino alla fine».

Quando di più?
«Con Garcia ho pensato di vincere lo scudetto. Ero da due giorni a Londra con mia moglie e quando mi hanno chiamato per dirmi che la Juve stava perdendo dopo la nostra gara col Napoli, ho pensato in quel momento che forse era l'anno buono. Con Spalletti anche ci siamo andati vicino, dal punto di vista del gioco era la Roma che lo meritava di più. Quello era un periodo in cui noi giocavamo meglio degli altri, e lo si vedeva nettamente. Siamo stati vicino a loro col gioco anche se quell'Inter era di un altro pianeta a livello societario e economico. Gli abbiamo messo paura sul campo. E poi la cavalcata tanto trionfale quanto sorprendente con Ranieri. Già...».

La Coppa Italia: per favore metteteci più di tutto in questa competizione.
«Noi ci teniamo. C'è un modo sbagliato di vederla in Italia, la si sottovaluta come l'Europa League. Ci manca da troppo tempo. C'è voglia. Almeno dal mio punto di vista il sogno sarebbe alzare un trofeo prima di lasciare».

Lasciare?
«Prima o poi. Non so ancora quando. Io ho già fatto una stagione del genere, come si dice "scadente" (ride) ma nel senso col contratto in scadenza, ed è stata una delle mie stagioni migliori. Appena arrivato Monchi ho rinnovato, il giorno dopo l'addio di Francesco. Non era neanche così tanto scontato quel rinnovo, pochi lo hanno capito. Non mi crea problemi la situazione».

A me sì, hai sempre detto gli Usa, il Boca...
«Gli Usa? Mi piacerebbe vivere l'America, se però sarò in grado di viverla da calciatore, sennò in America ci sono andato anche quest'estate in vacanza. Il Boca? Posso andare a vedere anche adesso Boca-River in uno stadio che mi fa impazzire, ma non voglio perdere tempo, lasciare un brutto ricordo di me altrove».

Va be' allora non ci andare.
«Non ti sto eludendo la domanda, solo non vorrei mai dirti una cosa che poi so che domani non è così. Il mio desiderio è finire bene. Io, se sono in grado di farli, anche altri 7 anni voglio restare! Per come sono fatto, se sento di non essere all'altezza, ho un livello di dignità barra permalosità altissimo e non mi farebbe paura smettere. Vivo con un solo obiettivo: non voglio fare una brutta stagione, lasciare in maniera negativa, trascinarmi per il campo, con polemiche o in panchina creando problemi. Io sarei stato pronto a lasciare anche lo scorso anno, perché avevo lasciato un grande ricordo. Lasciare da capitano una squadra semifinalista di Champions mi sarebbe anche piaciuto. Poi però è evidente che era presto».

Lasciare o no, mi sembra tutto così troppo "normale": tu sei una bandiera della Roma.
«Sì lo so. E io mi sento una bandiera della Roma. Sai cosa significa? Significa che quando prendi una decisione, parli con un altro club che ti ha chiamato, e tutti ti dicono di lasciare, parlo anche di cosa è successo in passato, la bandiera della Roma in quel momento si rende conto di essere di proprietà della Roma, cioè non sono io ma "della" Roma, la decisione non spetta nemmeno più solo a te. Io mi sento proprietà dei tifosi della Roma. Della storia della Roma, come lo è stato Francesco, e non sei nemmeno più libero di scegliere per il tuo bene professionale perché rappresenti qualcosa, rappresenti qualcuno. Faresti male ai tifosi della Roma. Ora non mi sentirei un infame a lasciare a 35 anni e andare a fare due anni in America: mi sarei sentito una merda ad andare via due anni fa in una squadra italiana. Mi sarei sentito male ad andare via quando la Roma rischiava il fallimento o quando ha cambiato proprietà e ho avuto l'offerta più grande della mia vita e sono rimasto. Sono scelte di riconoscenza. Non bisogna biasimare però chi non la pensa così. Il giocatore che sta tre anni alla Roma, si allena sempre bene, si spacca e si comporta bene e poi vuole andare via, non è da biasimare. Perché in quei tre anni ha fatto il romanista, magari più di tanti altri».

Tu sei romanista, non l'hai fatto. Sei la Roma anche come fattore che paradossalmente divide, una volta era quello che ci faceva sentire uniti, oggi è il primo motivo per dividerci. Anche, se non soprattutto, per De Rossi.
«Lo scorso anno ho ritrovato l'unità. L'anno scorso ci siamo sentiti uniti nuovamente. È quello che ho detto dopo il Liverpool... A costo di sembrare provinciali per tanto tempo ancora, ma per me i romanisti sono quelli che: "guarda questi vincono la Coppa Italia e festeggiano per tre mesi", oppure: "so' quindicesimi in classifica e vanno in 60.000 a Roma-Brescia", io vivevo de questo, io sono rimasto a Roma per questo, perché questo è essere romanisti. Poi certo ti puoi incavolare, puoi fischiare, contestare, un giocatore, l'allenatore, la dirigenza però durante la partita trasciniamo la Roma. Lo scorso anno c'è stata unità. Quest'estate ho sentito grossa amarezza durante la campagna acquisti e ho temuto si fosse perso qualcosa, invece durante Roma-Atalanta ho sentito di nuovo tutti: i tifosi hanno pareggiato con noi, hanno trascinato la Roma. Se abbiamo ritrovato questo non mi sembra una cosa da poco».

@Mancini

Bisogna distinguere sempre tra tifosi da stadio e da social.
«Di più. Insegnerò ai miei figli a fare distinzioni tra quello che vivi sui social e quello che vivi tutti i giorni nel quotidiano. Se accendo una radio o un blog e leggo: "De Rossi t'ammazzamo, porco bastardo", poi quando esco di casa e passeggio la gente non mi dice nulla, nel peggiore dei casi mi sorride e viviamo in armonia, di cosa mi devo preoccupare? Dei social? La vita è un'altra cosa. Comunque non sto più su Facebook, cioè ho cancellato l'applicazione sul telefono. E sto meglio».

Ti sei pentito di aver parlato di maiali col microfono o di papponi a Trigoria?
«Non mi sono pentito di averlo detto. Non mi pentirò mai nella vita mia di dire una cosa, anche in maniera poco elegante, per difendere un compagno di squadra. Se il mio compagno se la merita. Altrimenti si risolve nello spogliatoio, senza fare Renegade o i supereroi. Questo vale pure per dirigenti e per allenatori. Non mi pentirò mai di difendere un compagno, un allenatore, un dirigente: di difendere la Roma».

L'abbraccio ad Olsen è un manifesto in tal senso.
«No. Io voglio bene ai miei compagni. Io abbraccio tutti. Robin è un ragazzo meraviglioso. Ne stanno parlando troppo per quello che ha fatto finora, per me non ha sbagliato mai, magari prima di un gol ha sbagliato qualcuno, io, Manolas, un centrocampista o potevamo fare un passaggio migliore. Se dopo tre partite forse ha sbagliato – forse eh – su un gol, stiamo parlando della normalità, anzi, forse ha sbagliato meno di tutti gli altri, me compreso. Ma di che parliamo?».

Di insicurezza si dice.
«E si dice male. Io vedo un portiere che sta facendo il suo, non vedo una carenza in porta. La foto dell'abbraccio è una foto normale, è la foto della prima di campionato, non è legata a doverlo difendere. Olsen mi sembra Strootman che quando è arrivato ci teneva a parlare italiano perché ci teneva a parlare con noi. È un ragazzo per bene, è un ragazzo di un gruppo sano, non dovevo difenderlo, ero felice e volevo condividere con lui la gioia della Roma che vince. Ho abbracciato Alisson e Alisson non lo dovevo difendere, ci salvava una partita sì e una pure, eppure lo andavo ad abbracciare perché io abbraccio i miei compagni».

A proposito di compagni, Nzonzi ci può giocare nel 4-3-3? Ti ha dato fastidio il suo arrivo?
«Non mi compete. Non mi ha dato fastidio il suo arrivo, casomai ha dato fastidio a chi s'è inventato questa cosa. Posso giocarci tranquillamente insieme a Steven, ha fatto anche il mio ruolo, possiamo anche alternarci. Mi sembra difficile dire che non possiamo giocare insieme. Non vedo un problema, come non potevo giocare con Gonalons, sembrava che non potevo giocare con Paredes, ed è sempre andata bene. Chi dice che mi ha dato fastidio dice una bugia».

"Se avessi avuto una grande stampa romana...".
«A 35 anni sono arrivato al punto di dire che se sei più forte vinci, non se hai la stampa più forte. La stampa non ti fa niente, parlo di calciatori. Se non leggi i giornali, se non apri i social, se non leggi le cazzate sui siti, le notizie di mercato non ti fa niente. Io non leggo più. Chi ha l'abitudine di leggere tutto questo, una mezz'ora al giorno se la rovina secondo me. Poi devi essere forte tu. Ci sono giocatori che sanno staccare la testa, ma ci sono anche giocatori che è meglio se non leggono. Dentro una squadra meno se ne parla meglio è. Prima delle partite per esempio leggere le notizie di mercato un pochino ti scombussola, ma se in campo riesci a spegnere la radio e accendere quello che sei è meglio. È quello che devi fare».

Non leggi i giornali, ma le radio le senti?
«Le radio non le sento, per un discorso di tutela. Prima le sentivo quando vincevamo, era il mio compromesso. Ma era sbagliato anche quello».

La calunnia che ti ha fatto più male?
«Quella che m'è venuta in mente appena mi hai fatto la domanda risale a un Fiorentina-Roma di Europa League: sbaglio un passaggio, prendiamo gol e la solita caviglia che mi distrugge mi cede. Hanno detto che sono uscito apposta. E io non volevo uscire per quel motivo: "Ecco se esco adesso mi dicono che cerco una scusa". Sapevo cosa avrebbero detto».

Aiutiamoli allora, questo sgarro dove sta?
«Decidi te. Ma questa non mi ha mai dato fastidio perché penso che sia abbastanza leggibile come stronzata. Però mi dispiace che a volte alla gente vicina, ai parenti, gliela devi spiegare questa situazione: loro non hanno il rapporto diretto con quest'ambiente, con la calunnia o con l'invenzione mediatica. Non hanno la mappatura: "Vabbè lo ha detto questo, questo mi odia si sa, non vale"».

Qualcuno ti odia. Ti senti amato?
«Sì. Per il tipo di carattere che ho non posso pretendere che tutti mi amino, lo so che su 100 saranno 80 ad amarmi ed è tanto. Quando sbaglio in campo come è successo me la sono anche cercata. Ma io mi sento amato. È una cosa preziosa».

@Mancini

Non poter pretendere che tutti ti vogliano bene... Florenzi l'ha detto nel giorno del rinnovo: la tradizione può continuare?
«Può continuare come romanità, come attaccamento alla maglia, come giocatore forte. Quando la gente sperava che facessi le stesse cose di Francesco non le potevo fare, perché sono diverso. Ad Alessandro non si deve chiedere di fare le stesse cose che faccio io e che ha fatto Francesco. O Giannini. O un altro romano e romanista. Nessuno di noi può fare 300 gol come Francesco. L'unico amato al 100% è Totti, perché è speciale, hai fatto 300 gol, mi hai fatto essere felice per più di 300 volte».

Hai rivisto l'addio?
«No, è stata una settimana particolare. Un momento estremamente emozionante ma non piacevole. A me non piace quando vanno via i compagni di squadra, ho pianto come un ragazzino quando sono andati via Perrotta e Cassetti. Se se ne va lui, con cui hai condiviso più cose di chiunque altro...è tanto triste».

La tua ultima gara?
«Ci sarà una mia ultima partita. Per forza. E io pensavo anche a quello quel giorno: "Prima o poi toccherà pure a me". Vedere lui provato, segnato, è stato duro. Poi è stato tutto molto romanista, certo, forte, toccante, profondo, ma non poteva essere altrimenti. Però è dura, un tuo amico che vedi da calciatore tutti i giorni di colpo non lo vedi più...».

Ora come lo vedi?
«Lui ora sta bene, lo vedo inserito. Ci vorranno altri anni per capire se preferisce fare il dirigente, o fare un lavoro alla Monchi, o fare qualcosa a livello organizzativo, o l'ambasciatore, o cambiare idea e mettersi a fare l'allenatore. I primi anni sono così, non tutti hanno le idee chiarissime. Non è facile».

Durante Roma-Liverpool ti è capitato di pensare a Agostino Di Bartolomei?
«La storia di Agostino Di Bartolomei col Liverpool si lega a tante altre cose, a cose delicate. È un capitano che non ho vissuto da tifoso ma è quello a cui mi sono attaccato di più dopo. Quando ero grande. La famosa fascetta personalizzata non è nient'altro che un tentativo di fare una cosa semplice e sobria come ce l'aveva lui: una fascetta semplice e bianca sulla maglietta della Roma. Quando mi è stato proposto di metterci chissà cosa, ho voluto solo quello. Se non avessi tirato la fascia ai tifosi nessuno se ne sarebbe accorto, sono due anni che c'è scritto: "Sei tu l'unica mia sposa...". (Pausa) Io volevo chiamare mio figlio Agostino. Ma mi ero giocato il jolly col nome della prima figlia e quindi l'accordo era che il nome doveva sceglierlo mia moglie. Ho abbozzato, ma mi piace il nome. Io l'avrei chiamato Agostino De Rossi. Forse sarebbe stato troppo».

Forse. Oh Agostino... C'è solo un Capitano: i cori della Roma.
«Da ragazzino mi inventavo dei cori patetici, imbarazzanti, ridicoli. Me li ricordo pure, ma non te li dico manco sotto tortura perché erano cori di un ragazzino di 7-8-9 anni. E poi disegnavo le magliette della Roma. Una volta arancione, una volta viola col lupo, ora le strapperei se me le portassero. Ecco: io volevo diventare quello che disegnava le magliette della Roma».

Sei diventato la bandiera.
«Eh...».

Il coro preferito?
«Non ce l'ho, vado a periodi. Ma ci sono frasi che mi fanno effetto, tipo: "Nessun mai ti amerà più di me". Ecco: "Nessun mai t'amerà più di me" mi emoziona, è una frase bella. È la cosa più bella che puoi dire. Che non significa io ti amo più degli altri, che nessuno te pò ama' de più. Significa che t'amo».

Sarà il titolo. Siamo arrivati all'amore, che cos'è la Roma?
«Dovrei parlare un'ora e non basterebbe. Tutti mi dicono: tu sei un tifoso. Sì, che sono tifoso della Roma, ma io sono un calciatore, non posso dare una definizione. La Roma può perdere per colpa mia, vincere per merito mio. È una responsabilità grandissima, me la sento pesantemente sulle spalle. È un amore incredibile, cresciuto cogli anni. Nonostante mille volte abbia pensato di mandare a fanculo tutti, "ma lo sai che vi dico? io me ne vado!", "ma chi me lo fa fare"... Qualche amarezza di troppo, però negli anni l'amore è cresciuto. Non mi piace tutto di ciò che ruota intorno alla Roma e a Roma. Però l'amore è cresciuto sempre forte, sempre tanto. La Roma è un grande amore. Grande».

Il momento più bello?
«La prima Coppa Italia. Sarà ingenuo, se pensi ai palmares dei miei colleghi non c'è paragone, ma la prima vittoria con la Roma… Avevamo già vinto il Mondiale con Francesco, chattavamo la sera, dicevamo a Berlino è stata una passeggiata, domani sera è quella difficile... È stata bella. È un peccato che qui devi scegliere un momento di un qualcosa che non è un momento. Come si dice: è bello il viaggio stesso, conta il percorso non la meta. Il percorso con Luis Enrique per me è stato bellissimo. Certo pure io ero contento di più dopo aver battuto il Barcellona che dopo Manchester-Roma 7-1, ma tutte le palle che ho toccato, tutti i metri che ho fatto, per come sono fatto, li ho fatti in funzione della Roma, non ho mai fatto nemmeno un passaggio che potesse essere più importante o più bello per me che per la squadra. Mai fatto nulla che fosse più utile per me che per la Roma. Magari se fossi andato all'Inter, allo United o altrove, avrei giocato alla stessa maniera, ma mi sono messo a disposizione della Roma e ho ricevuto de più, tantissimo a livello umano, economico, professionale. Poi ho sbagliato, li conoscete i miei errori, ma ho fatto sempre tutto per la Roma. Anche i miei sbagli».

Il Mare di Roma, quella roba là... Il Pescatore di De André, Ostia...Vale ancora? Ci vai ancora di notte da solo a guarda' er mare?
«Sì. Ho vissuto gli ultimi due mesi al mare. Ho rifatto il bagno di notte come da ragazzini la notte di San Lorenzo, con mia moglie a Ostia. Le cose che facevo da ragazzino al mare non vedo perché non si possano fare a 35 anni. Come la Roma, il mare fa parte di me».

Va be ma allora 'sto sgarro è sulla guancia destra o sulla sinistra?
Ride, se ne va. E aveva un solco lungo il viso come una specie di sorriso.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Tags: