"Tornerai a casa"
Il pre partita con il Genoa è un mix di emozioni forti ma contrastanti. Dopo mezz’ora la partita è archiviata e allo stadio si aspetta solamente il saluto di De Rossi
(GETTY IMAGES)
C’è una strana atmosfera. Siamo tornati da Torino con una serie di sensazioni, tutte confuse tra il dispiacere di ciò che avrebbe potuto essere e l’aspettativa di quello che potrebbe ancora essere, magari all’esito del mercato di gennaio. Da un lato, ci rimane il tarlo che, se noi avessimo uno stadio come quello della Juventus, avremmo probabilmente dieci punti in più in ogni campionato (“Dovemo aspettà il 2029. Speramo…”). Perché quelle tribune incollate al campo, con un tifo (e non me ne vogliano i tifosi della Juventus) nemmeno paragonabile al nostro, aiutano a fare risultato, e nemmeno poco (“Tu pensa la Curva Sud a cinque metri dalla linea di porta…”). Dall’altro, quella fluidità ed incisività di manovra, che avevamo visto nel primo tempo contro il Milan, da allora non si è più vista o, comunque, si è vista meno. La sensazione, al di là della mancanza di una punta, è che il gioco di Gasperini debba ancora essere digerito dalla squadra, che prova a mettere in pratica quanto provato e riprovato in allenamento ma ancora senza averlo compreso appieno.
Altrimenti non lo spieghi come sia possibile che non si trovi mai una soluzione rapida per andare al tiro, anche in assenza di una punta “vera” (“Non è che per tirare in porta devi essere per forza centravanti …”), con quei palloni che transitano al limite dell’area, da destra a sinistra, da sinistra a destra, senza che ci sia uno che si assuma la responsabilità di provarci (“ma perché non tiriamo mai!?”). E poi, da ultimo ma non meno rilevante, c’è che una Juventus di un livello non eccelso come in passato, a Torino, probabilmente non si era mai vista. E la sensazione che è rimasta incollata a molti, sul treno di ritorno, è stata non di una sconfitta ingiusta, ma di un’occasione buttata, che è diverso. Ed è peggio (“Come se ci fosse mancata la convinzione di vincere, perché si poteva vincere, mai come questa volta”). Quando arrivo ai tornelli, quindi, c’è un po’ di tutto: c’è la necessità di vincere (“Ti metti a sei punti il Como e resti incollato alle prime”); c’è la paura dello psicodramma (“pensa se oggi DDR vince: da domani tutti a lamentarsi della proprietà e a mettere sotto processo Gasperini”); c’è la voglia di riabbracciare Daniele (“Per me è più di Totti, e t’ho detto tutto”). Ma, e soprattutto, c’è la voglia di continuare a stare dentro a questo Campionato (“Ieri sera, mille commenti: pè lo scudetto so’ quattro; la Juventus è rientrata. Ne avessi sentito uno che ha detto che se vincemo cor Genoa ce stamo pure noi …”) per vedere che succederà laggiù, quando sarà. Perché, anche se non ci crediamo, mi devi spiegare tu perché non potrebbe essere (“E’ l’anno dei Mondiali: tutto po’ esse. L’importante è stacce fino alla fine”). Ovviamente, una volta preso posto, la prima immagine che colpisce tutti è DDR che ha sbagliato panchina (“Me fa davvero strano”; “Dai … nun po’ esse”). E quell’immagine, laggiù, plastica, dà la misura di come il tempo passi davvero in fretta (“Mi sembra ieri la prima volta che l’ho visto giocare qui all’Olimpico: era un ragazzino”) e di come la nostra Storia sia stata fatta soprattutto di tanti progetti che si sono rincorsi, che ci hanno portato sempre lì all’ultimo miglio, ma senza quasi mai farci tagliare il traguardo (“Se tu pensi che Daniele, tolto il Mondiale, ha vinto soltanto due Coppe Italia ed una Supercoppa”, “Ma no! Ha vinto anche un Europeo con l’Under 21 e un Bronzo alle Olimpiadi!”, “Ecco, appunto …”). Il sentimento che prevale, a quel punto, è un altro, e cioè vincere con Gasperini, subito, e tanto, e poi, subito dopo, riportare DDR a casa (“Devo tornare alla Roma. Adesso tre anni con Gasperini, vinciamo qualcosa, e poi subito con Daniele”). Perché quell’immagine di De Rossi, che parla con il quarto uomo reclamando un fischio mancato contro la Roma, è un’immagine che stride con tutto: con la realtà, con le speranze, con la nostra Storia. È un’immagine necessariamente falsa, proprio perché, in quel momento, non può esserci nulla di vero. Non è Daniele, difatti, che si muove, gesticola, pronuncia quelle parole dirette al quarto uomo. No, non è lui. È l’allenatore del Genoa. È altro. Ma non è lui. E scrivere di quell’episodio è riportare, nero su bianco, davanti a te, sullo schermo del pc, una insanabile contraddizione, perché Daniele e la Roma li trovi, e li troverai, sempre dalla stessa parte della pagina, mai su due facciate diverse e contrapposte (“Stasera, con DDR lì, non è una partita, ma è una situazione assurda che speriamo finisca subito”).
E, in effetti, così è. Perché finisce, fortunatamente, subito (“Non avrei retto a vederlo esultare oppure disperarsi: meglio così, meglio che sia stata una partita senza storia”). Noi giochiamo bene (“Non come contro il Milan, non scherziamo”) ma il Genoa, davanti a noi, sembra una squadra senza nerbo. Segniamo tre gol in mezz’ora, con loro che ci aiutano, e non poco, a metterla dentro (“Non ti dico che se li siano fatti da soli, ma poco c’è mancato”). E in molti giocano bene (“Dybala trova linee di passaggio meravigliose”; “I tre dietro non sbagliano nulla”; “Se segnano pure Konè e Ferguson, stamo apposto”). A quel punto, saranno state, minuto più, minuto meno, le nove e venti, e tutto lo Stadio rimaneva lì soltanto per aspettare di salutare Daniele. Perché avremo vinto poco, avremo vissuto momenti belli ed altri meno, avremo pianto per i rigori non dati e per quelli sbagliati. Ma abbiamo una Storia. La nostra. Ed abbiamo la fortuna, a differenza di altri, di potere indicare, con nome e cognome ed orgoglio, chi l’ha scritta. Grazie, Daniele. Per quello che è stato e per quello che sarà. Perché, tanto, qui torni. Poche certezze nella vita. E questa è tra quelle.
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