Sogno ma son desto
Una primato iniziato il giorno prima, i tentativi maldestri di Zaniolo. Il misto di emozioni tra rigore a sorpresa, certezze Pellegrini e Cristante e l’infortunio a Dovbyk
(GETTY IMAGES)
La partita con l’Udinese non è iniziata alle 18 di domenica. Noi dobbiamo dirci la verità. Questa partita, infatti, è iniziata prima. Non una settimana prima, al fischio finale di Milan-Roma, quando l’esultanza dei giocatori del Milan ci ha dato la misura di quello che stiamo diventando. Nemmeno dopo il due a zero in Scozia. Questa partita è iniziata, con una fattispecie a formazione progressiva, sabato pomeriggio.
È iniziata con il pareggio della Juventus, per poi proseguire con la remuntada del Parma, con la tripletta del Sassuolo e, poi, dulcis in fundo, con la doppietta del Bologna. È iniziata lì, in quel momento, quando ancora il Dallara cantava Cremonini ed anche i seggiolini della Tevere più deboli in aritmetica hanno fatto ventuno più tre. Ed allora tutti, nessuno escluso, ci siamo precipitati all’Olimpico. Perché stavolta non c’è da fare scherzi, non c’è da sbagliare.
La fila ai tornelli (comunicazione di servizio: fate qualcosa per aprire qualche cancello in più, perché, alle cinque e mezza, la sensazione era che ci si dovesse mettere in fila partendo dalla recinzione dello Stadio dei Marmi), era caratterizzata da una sola necessità, che era quella di vincere, senza se e senza ma. E questa necessità attecchiva su di una convenzione diversa, che accomunava tutti, e cioè quella che, quando passa un treno, magari inatteso, non avere la capacità di prenderlo al volo sia una grave colpa. I seggiolini in fila, infatti, non avevano dubbi. Si spaziava dal «non voglio sentire che ci manca la punta e ci manca Dybala», al «siamo carichi noi, figurati loro che sanno che, se vincono, so’ primi». Insomma, si avvertiva quell’atmosfera «che sarà pure difficile, ma forse non è così impossibile». E si avvertiva, palpabile, la voglia di tutti di essere già dentro, seduti, al proprio posto, senza attardarsi ai piedi delle scale, nello spazio antistante la Tevere, perdendosi negli usuali commenti. Perché la fretta di tutti era quella di andare a mettere il pallone nella porta dell’Udinese per cullarci, poi, per due settimane, nel sogno che, se anche a Cremona.
Con questo mood, quindi, la Tevere si approcciava al fischio di inizio. Fischiando, va da sé, Zaniolo, malgrado le dichiarazioni rilasciate da quest’ultimo a Dazn che avevano lasciate intendere che, semmai vi fosse la possibilità, lui, qui, tornerebbe volentieri («Ci farebbe comodo a gennaio»; «Gasperini l’ha allenato l’anno scorso e l’ha lasciato andare via: scordatelo»). La nota positiva è che la Roma, che «gioca, di partita in partita, sempre meglio», iniziava a portare in avanti tutti («Mancini è un altro giocatore: io pensavo che sapesse solo difendere»; «Ti sei dimenticato del pallone che ha dato a Zaniolo a Tirana, allora») e trasferiva la sensazione, a tutti i seggiolini, che il gol sarebbe potuto arrivare, fosse soltanto perché «quando porti al tiro dentro l’area pure Celik, vuol dire che la squadra ed i movimenti funzionano».
Ma i seggiolini si rifacevano gli occhi soprattutto con le giocate di Pellegrini e la regia di Cristante («Mò non li fischiate più, eh?»), e sempre con uno sguardo attento su Zaniolo che, anche per coloro che mal lo sopportano, «è quello più forte dell’Udinese: fa reparto da solo e può inventarsi qualunque giocata».
Poi, però, la scritta sugli schermi dell’Olimpico creava una qualche confusione mista ad apprensione ed entusiasmo («Fallo di mano? Ma in quale area, la nostra o la loro?»; «Direi la loro: abbiamo attaccato sempre noi») perché nessuno, nemmeno Celik, si era accorto di nulla, figuriamoci i seggiolini della Tevere. L’annuncio dell’arbitro, quindi, creava un nuovo tipo di esultanza prima d’ora mai conosciuta dentro lo Stadio: non più quella «visiva» ma quella «sonora» («No, vabbè: ho esultato così solo quella volta che, al telefono, il commercialista m’ha detto che ero annato a credito»), perché non «vedevamo» ma «sentivamo» l’assegnazione di un rigore. E l’entusiasmo veniva amplificato non solo dal gol, ma anche dall’impeccabile esecuzione di Pellegrini, che dava la misura della sicurezza ritrovata dal nostro («È in fiducia: adesso pensassero a rifargli il contratto»). L’uscita di Dovbyk, nelle more, destava più di un disappunto, non tanto, e non solo, per la necessità di schierare Baldanzi punta («Secondo me lì può fare anche bene»), ma per la paura di vedere un secondo tempo con la Roma arroccata nella propria area («Se ci schiacciano, senza una punta vera, possibilità di risalire con i rilanci inesistente»). Ma il secondo tempo iniziava come il primo, con Pellegrini ad indicare gli spazi da riempire, Mancini e Celik a ricordare Scirea e Bergomi in quei tocchi nella notte di Madrid, Cristante a reggere tutto l’architrave. E quando, sul due a zero, Ndicka provava a dare soluzione al dilemma che alcuni si erano posti («Ma Zaniolo, se segna, seconda te stavolta esulta?»), ci pensava Svilar («Meritiamo di vincere qualcosa per lui, perché è troppo forte») a lasciare che il dubbio continuasse tranquillamente ad albergare in noi.
Non mi restava, a quel punto, che affrettarmi, vedendo il solito anziano tifoso che si approssimava al boccaporto delle scale, ad alzarmi dal mio seggiolino per raggiungerlo, perché volevo un suo commento a caldo. Mi avvicinavo a lui, quindi, con passo veloce e, una volta raggiunto, che stava ancora al primo gradino, gli offrivo il braccio («Ah, grazie, così scenno più tranquillo!»), affrettandomi a chiedergli: «E adesso che siamo primi?». La sua risposta mi giungeva inaspettata, perché mi attendevo un «è troppo presto», «ne mancano ventisette», i conti se fanno alla fine. E, invece, no, mi rispondeva altro: «se a gennaio danno a Gasperini ’na punta, magari ce restamo». Magari ce restamo.
Speriamo che abbia ragione. Perché i sogni, si sa, sono sogni. Ma, ogni tanto, si avverano.
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