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L'accusa di Zeman: "La Juve non è l'unica, le procure si sveglino"

Il boemo alla presentazione della sua autobiografia: "Per me le plusvalenze sono sbagliate. Il calcio italiano sta male tecnicamente e finanziariamente"

Di Francesco e Zeman alla presentazione di ieri

Di Francesco e Zeman alla presentazione di ieri

02 Dicembre 2022 - 10:41

Quello che passa per essere il grande accusatore della Juventus, nel giorno della presentazione della sua autobiografia («La bellezza non ha prezzo», scritto con il vice-direttore della Gazzetta dello Sport Andrea Di Caro, Rizzoli editore, 300 pagine, 18,50 euro) non ha voluto affondare il colpo sui bianconeri, parlandone solo al termine dell’evento, incalzato dai giornalisti presenti. E non è andato giù particolarmente duro. «La Juve finisce spesso sotto l’attenzione delle procure. La procura di Torino si è mossa per prima, ma non credo che solo la Juventus abbia attuato queste pratiche: anche le altre procure dovrebbero svegliarsi. La Figc dice che le plusvalenze si possono fare, per me questo è sbagliato. Più passa il tempo e più la finanza sarà protagonista. Il calcio italiano sta male tecnicamente e finanziariamente». Detto da uno che scatenò un terremoto parlando di un «calcio che deve uscire dalle farmacie e dagli uffici finanziari»: per anni si pose l’accento solo sulla prima parte della sua affermazione, che finì per scoperchiare un sistema marcio.

Tra quelli che gli hanno dato una mano, Sandro Donati, classe 1947 come lui, allenatore di atletica, punto di riferimento mondiale per la lotta al doping. C’era anche lui, ieri, alla presentazione, e lo ha ringraziato «per essersi servito della sua notorietà in modo molto generoso», prima di raccontare un retroscena inedito: «Ai tempi, dopo quelle dichiarazioni, mi contattò un giovane tecnico del laboratorio Antidoping dell’Acqua Acetosa. Venne da me tutto timoroso, dicendo che le analisi dei calciatori non venivano fatte, le urine venivano gettate via. Al che mi misi in contatto con il giudice Guariniello, che il giorno dopo mandò gli ispettori al laboratorio. Chiese le analisi, gli dissero che erano troppe, e non le stampavano per non sprecare troppa carta. Chiese i supporti informatici, e gli dissero che riutilizzavano i dischetti. Poi ci dissero che facevano solo dei controlli a campione, non li  esaminavano tutte le provette... Una volta venuto fuori che non facevano i controlli venne fuori uno scandalo: il laboratorio venne chiuso, e si dovette dimettere anche il presidente de Coni. Io volevo fare l’allenatore - prosegue Donati - mi hanno chiesto di sottoporre i miei atleti a pratiche dopanti, richieste che arrivavano da un professore dell’Università di Ferrara. Parlai con gli atleti, mi dissero che erano dalla parte mia. Ma in poco tempo mi ritrovai a essere trattato come un nemico del sistema. Ricordo che prima dei Giochi Olimpici di Los Angeles il direttore tecnico, dopo aver chiuso la porta, mi disse: “Per l’ultima volta, tu pensi che la gente si interesserà dei tuoi atleti, che nella migliore delle ipotesi andranno i finale, o dei nostri, che vinceranno le medaglie?”. Erano sempre atleti italiani, ma sottoposti a pratiche dopanti. E mi resi conto che aveva ragione lui. Di Zeman ricordo che, quando mi occupavo di metodologia di allenamento, gli chiesi se poteva venire a dare una testimonianza agli atleti. Lui accettò, peraltro senza chiedere nulla, gratis, ma il presidente del Coni non ne volle sapere: “assolutamente no”. E lui venne lo stesso, mescolandosi agli spettatori: parlammo, ma come fosse uno del pubblico, perché non volevano che insegnasse».

La Roma di Zeman

Si è parlato anche di Roma, ovviamente, con due protagonisti di quella squadra, Di Biagio e Di Francesco. «Col mister ho sempre avuto un rapporto privilegiato - racconta il primo - l’ho avuto tre volte, a Foggia, a Roma, e nel finale di carriera anche a Brescia. E i compagni mi dicevano: “Vacci a parlare, tu che lo conosci”. Dicevano tutti che l’avevo portato io, persino Maran, che era stato esonerato per fargli posto, ce l’aveva con me. E invece ero stato l’ultimo a saperlo. Risposi ai compagni: “Ragazzi, io ci vado a parlare, così siete contenti. Ma tanto non mi ascolta...”. E così andò. Però mi ha fatto vedere cose che trent’anni fa non vedeva nessuno. Ricordo quando mi diceva: “Non è passaggio se non tagli uomo...”. Capitava, con la Roma, che facevi un passaggio orizzontale, a un quarto d’ora dalla fine, mentre vincevi 2-0, e dopo due minuti venivi sostituito. “Mister, che è successo?”. “La passi indietro...”. Ma grazie a lui sono arrivato in Nazionale a 22 anni, ai tempi del Foggia, e ci sono tornato alla Roma, dopo un periodo difficile». «Col Foggia ti abbiamo preso nel Monza che neanche giocavi - scherza il mister - portavi la borsa...». «Mister, ci sono gli almanacchi: ho fatto 30 presenze, abbiamo vinto il campionato, ero il capitano della nazionale di serie C...». Era cominciata in modo curioso, l’avventura del boemo alla Roma, dopo l’esonero con la Lazio. Era a Praga, arriva una telefonata: «Salve, sono Franco Sensi...». «Si, e io sono Napoleone...». E riattacca. Ci volle la telefonata di Giorgio Perinetti per convincerlo che veramente il presidente della Roma voleva parlargli. Due giorni dopo era a Villa Pacelli. Lunga spiegazione di Sensi sui progetti e le ambizioni della Roma, lui ascolta e non dice una parola. Poi il presidente conclude: «Però io qui devo trovare l’allenatore della Roma: le posso dare 48 ore...». Al che lui prende la parola per la prima volta: «Se a lei servono 48 ore, se le prenda pure. Io voglio essere l’allenatore della Roma». «Io sono sempre stato un giocatore di corsa», esordisce Di Francesco, e il mister lo ferma subito: «Anche perché senza la corsa, era difficile che giocavi...». «Facevo parte del primo gruppo - riprende il pescarese - ero uno di corsa, ma con lui ho fatto fatica. Ero nel primo gruppo, con Totti, Tommasi e Cafu: dovevamo rispettare dei tempi ancora più bassi di quelli richiesti agli altri. La sera eri stanchissimo, e pensavi con terrore a quello che ti aspettava il giorno dopo. Quattro giorni consecutivi a ripetere i 1.000 metri: l’ultimo giro era quello che definiva “di carattere”. L’ho capito solo quando sono diventato allenatore cosa voleva dire, e quanto era importante. Partivamo staccati di 10 secondi, e nella tua testa non volevi farti riprendere da quello partito subito dopo di te». «Avevi la fortuna di giocare dietro Totti - spiega il mister - così facevi gol. Anche se dovevi correre per due». «Per tre mister... pure per Gigi. Poi, anni dopo, quando allenavo il Lecce, andammo a mangiare, e mi disse che avevo delle buone idee, ma che dovevo ancora capire che strada prendere. Anche lì, capii dopo quello che voleva dire».

«Siamo stati tra i primi a marcare a zona anche sulle palle inattive - racconta Di Biagio - ma il problema è che 5 ci credevano, e 5 no. E il portiere era uno di quelli che non ci credeva. Il mister ascoltava tutti, ma poi...». «C’era Aldair, era uno di quelli che voleva marcare a uomo. Ho detto: provate, vediamo... al primo calcio d’angolo prendiamo gol». Dai ricordi belli, a quello amaro dell’ultima parentesi, nel 2012-13, finita con l’esonero. «Ero appena salito in serie A con il Pescara, ancora ce l’hanno con me perché li ho lasciati. Pensavo di poter far bene a Roma, ma le condizioni non erano ideali. Non era solo un discorso di regole, e di comportamenti, ma anche di interferenze nel mio lavoro, e in quello dei miei collaboratori, Ferola e di Cangelosi. Non gli serviva un allenatore, ma un esecutore». La bellezza di tornare, quella volta, oltre a non avere prezzo, non ha avuto un lieto fine.

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