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Tavecchio, la valanga rosea. Storia di un'intervista senza asprezze

L'ex presidente della Federcalcio italiana racconta il controverso epilogo della sua gestione del calcio del Belpaese in un'intervista dalle molte incongruenze

01 Luglio 2018 - 09:31

Se vi siete persi qualche puntata della più bella serie dell'estate, "I senza vergogna", ieri la Gazzetta ha (ri)mandato in onda un episodio chiave. E visto che qualcuno può averlo perso, proviamo a riassumerne qui i passi principali nel timore (speranza?) che non si trovino poi altre testate disposte a replicare la stucchevole soap opera, perché di questo si tratta quando si lascia agli attori la facoltà di esprimersi senza alcuna contestazione rispetto a un copione così malamente recitato. Nella lunga estate neanche tanto calda che stiamo vivendo il telecomando batte dove il cuore duole. E mentre Mediaset fa il pieno di ascolti con un mondiale al quale non siamo stati invitati e che però ci piace guardare dal buco della serratura, discettiamo placidamente sulla crisi delle altre nazionali, sui pupari che le guidano, sulle braccia tatuate e le difficoltà tattiche di un continente, mentre i nostri eroi si abbronzano languidi sulle spiagge più esotiche esponendo il pettorale su Instagram.

Va dove ti porta l'opportunità

L'ultimo della serie è stato per l'appunto il ragionier Tavecchio da Ponte Lambro di fronte al tribunale (si fa per dire) del più prestigioso quotidiano sportivo italiano, dalla linea editoriale magari un po' ondivaga: la Gazzetta dopo aver fieramente avversato l'elezione di quello che (ahinoi) è stato addirittura per tre anni e mezzo il presidente della Federcalcio italiana, dal giorno dopo l'investitura ha cambiato registro fino a diventarne un fiero sostenitore, per poi scaricarlo dopo Italia-Svezia. Va dove ti porta l'opportunità, insomma. Oggi al ragioniere protoleghistaSalvini sta dimostrando che si poteva fare di più per difendere l'Italia dal sistema Europa») la Gazza riconosce l'onore delle armi e concede l'occasione dell'intervista senza asprezze, con domande tipo "Dica", "Pentito di essersi dimesso?", "Una curiosità: ma perché proprio Optì Pobà?", "Come vede la sua Inter?" "Cosa farà da grande?", "Il suo sogno".

Ventura chi?

Per fortuna quando va a ruota libera e nessuno lo interrompe (sia mai), l'anziano dirigente dà il meglio di sé, e quindi il peggio. Un po' come quando ascolti Lotito senza il filtro degli uffici stampa o quando intercetti Moggi che parla con Giraudo: esce l'anima vera e si capisce anche la statura morale (o, in altri casi, penale). L'incipit non poteva che essere sulla Svezia che invariabilmente riabilita l'Italia, ma solo per le responsabilità del presidente federale, ovviamente. Perché poi quando si parla di Ventura, è quello che è stato messo lì per sbaglio (degli altri) e che con la Svezia ha sbagliato tutto: «Io lo dicevo che al sorteggio non ci era andata bene, ma mi prendevano per matto. Troppi (sempre gli altri, ndr) l'hanno sottovalutata. (…) sono passati per un autogol con 5 uomini nostri in area e uno loro». Quindi la Svezia era fortissima eppure con l'Italia sono passati per caso. Dunque Ventura assolto? Macchè: «Lo mandai a vedere Balotelli, mi disse che in squadra c'erano veti su di lui. Mario era il mio preferito. (…) Ad Appiano, prima di Italia-Svezia, dissi ai giornalisti "Sono venuti in 30mila da Napoli". Mica potevo ordinare a Ventura di far giocare Insigne». Eccola lì la morale bifronte: la Svezia era forte, ma se abbiamo perso è perché non c'erano Balotelli e Insigne. E lui, dall'alto della sua competenza calcistica, lo aveva anche suggerito, ma il ct, de coccio, non colse.

Gli voleva mettere il tutor, Lippi, era noto anche questo. Ma le leggi federali, che forse il presidente doveva conoscere glielo impedirono. Per fortuna le conosceva un giornalista di Repubblica, che alla vigilia della nomina del viareggino, lo fece notare con un articolo. Conseguenza? Come sarebbe stato logico, si sarebbe dovuto chiedere scusa per l'inadeguata conoscenza del (proprio) regolamento e si sarebbe dovuto provvedere alla nomina di un altro supervisore. E invece Tavecchio ammette oggi il suo subdolo tentativo di cambiare le carte in tavola: «Ero pronto a derogare, ma la Corte Federale diede esito negativo». Se avesse potuto, con una deroga avrebbe destituito pure la Corte Federale, magari. E invece c'è persino qualcuno che vuole far rispettare le regole. Era stato Lippi a volere Ventura: «La nostra scelta era Donadoni, ma il Bologna disse no». Poi si pensò a De Biasi: «Ma il presidente della federcalcio albanese è un amico, mi implorò di non portarglielo via». Quindi cornuti (furono costretti a sposarsi con l'uomo voluto da Lippi) e mazziati (perché Lippi fu destituito prima di cominciare, quando ormai il danno era fatto). E addio supervisore.

Caro Conte, carissimo Conte

Ma il capolavoro è su Conte e anche la Gazzetta, con la sua sensibilità, se ne accorge, tanto da elevare a titolo buono anche per la prima pagina, questa meravigliosa chicca: «Il mio errore è stato non aver dato a Conte i 2,5 milioni in più che chiedeva. Li avrei recuperati con tre amichevoli. Antonio ne prendeva 4, a 6,5 sarebbe rimasto in azzurro e ora saremmo in Russia». Alt, attenzione, fermi tutti. Ma non ci avevano raccontato un'altra storia? Riavvolgiamo il nastro. Nella mente riemerge l'ultima conferenza di Conte, a Montpellier, dopo l'eliminazione dall'Europa per mano della Germania. Il suo melodrammatico incipit: «Oggi è peggio di ieri», subito interrotto dall'applauso della sterminata platea dei cronisti adoranti: «È finita, mi spiace per i ragazzi, per me è stato un grande onore allenarli perché mi hanno dato tutto (ma la Federcalcio no, verrebbe da aggiungere oggi, ndr)». E poi torniamo alla conferenza stampa di quattro mesi prima, quando era stato ufficializzato che al termine degli Europei avrebbe salutato tutti: «La qualificazione agli Europei mi ha riempito d'orgoglio e lì ho cominciato a valutare. Poi sono stato altri 4 mesi senza fare niente, in garage, e pensare che ci sarebbero stati altri due anni così mi ha fatto capire che sarebbe stato davvero difficile rimanere ancora in garage. A me non va di continuare a fare l'incudine». Con la chiosa di Tavecchio: «Sentiva il richiamo del campo, di allenare tutti i giorni». Potevano dircelo prima che era solo una questione di soldi. E di quanti soldi, peraltro. Lo stipendio monstre di 4 milioni, cifra mai toccata prima da un ct, Conte lo considerava una miseria. A 6,5 sì che avrebbe respinto quell'insistente richiamo del campo, certo che non si sarebbe dispiaciuto per i ragazzi, sì, che avrebbe continuato a fare l'incudine.

I difficili rapporti con le donne

Tavecchio poi torna su un grande classico: le sue (meritevoli) attività di beneficenza in Africa per respingere le malevole interpretazioni di razzismo su quell'indimenticabile discorso d'insediamento, quando citò il fantomatico Optì Pobà per definire il tipico esempio di calciatore ancora grezzo che fino a poco tempo prima «mangiava le banane» per poi puntare all'Italia. La Gazzetta all'epoca fu in prima linea a chiedere l'immediato allontanamento di un candidato dal pensiero tanto primitivo, ma oggi non trova niente di meglio che scherzarci su, chiedendo addirittura a Tavecchio un parere sul ministro Salvini che «ha chiuso i porti agli Opti Pobà», e quindi a tutti gli immigrati che mangiavano banane. L'ex presidente si vanta poi di aver contributo all'affermazione del movimento calcistico femminile italiano (lui che in un'altra memorabile intervista aveva detto, parlando delle calciatrici, «prima si pensava che le donne fossero handicappate rispetto agli uomini»), ovviamente dopo aver fatto dimettere per motivi di opportunità (elettorale) il suo fedelissimo Felice Belolli, presidente dei Dilettanti che gli teneva il posto in caldo, che non voleva dare più soldi «a quelle quattro lesbiche». Sui rapporti di Tavecchio con le donne si potrebbe scrivere del resto molto di più. Anche di quella odiosa vicenda finita in tribunale e svelata pochi giorni fa da due giornali stranieri (il Guardian e il New York Times) e ripresa solo da un giornale italiano, il Fatto Quotidiano, citando la sentenza con cui Tavecchio è stato assolto dall'accusa di molestie sessuli nei confronti della delegata del calcio femminile Elisabetta Cortani non per non aver commesso il fatto (del resto testimoniato da audio e video), ma per termini scaduti, con speciosi riferimenti peraltro all'età della denunciante e perché si è escluso il cosiddetto metus, "quello stato di paura e timore che è ingenerato nel privato dalla situazione di preminenza di cui usufruisce il pubblico ufficiale". Dal Romanista massima solidarietà alla signora Cortani.

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