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Roma-Lecce, l'acchiappasogni e gli acchiappafantasmi

il match dell'Olimpico vissuto in un mix di sentimenti contrastanti. Tra certezze e paure, discese e risalite, i tre punti importanti e l’ansia per Dybala

Dybala in panchina dopo la sostituzione in Roma-Lecce

Dybala in panchina dopo la sostituzione in Roma-Lecce (MANCINI)

Federico Vecchio
11 Ottobre 2022 - 11:30

“Devi capi’ che so’ stati solo incidenti di percorso”, dice uno all’altro mentre a piedi attraverso il ponte. Ma la replica apre un baratro: “Te sbaji, qui er problema nun so gli incidenti: qui er problema è proprio er percorso”, che spalanca la strada ai dubbi, sin qui nascosti sotto un Everest di entusiasmo, da Tirana agli aerei che, atterrando, hanno realizzato i nostri sogni, e ad un brusio che inizia a farsi sentire. “Nun segnamo mai”, “semo troppo schiacciati”, “a centrocampo nun c’è uno che verticalizza”, le frasi che risuonano in Tevere appena mi siedo. Ci si aspetta, quindi, da questa partita un segnale che spazzi via quei dubbi, che faccia ripensare al primo tempo di Torino, ad Udine, ai bulgari, all’Atalanta, al Betis come a delle eccezioni di un percorso che, a maggio, ci troverà belli e vincenti. E c’è voglia che la strada, quella maestra, venga ripresa subito. “Se vincemo oggi e giovedì cor Betis è la conferma che semo concreti e forti”, dove il “concreti” è legato a superare una squadra che non potrà che lottare per la salvezza ed il “forti” a battere, in casa loro, una squadra che “ha avuto più qualità” di noi (Mourinho dixit).

I primi venti minuti lasciano intendere che la squadra quel benedetto percorso fortunatamente non dovrebbe averlo mai perso. Dybala si muove ed accarezza il pallone e la Tevere è tutta per lui (“è bravo sempre, pure quanno la tocca con le mano”); il gol dell’uno a zero rilancia addirittura le quotazioni di Viña, che ha il merito di fare un’apertura per Pellegrini tutt’altro che facile (“er go è suo”) e candida Smalling a cambiare ruolo (“trovamo n’antro difensore, lui deve gioca’ de punta”). Poi, però, malgrado il vantaggio e l’uomo in più, la partita prende un’altra piega. Ci mangiamo troppi gol e questo innervosisce soprattutto quelli che respingevano con convinzione la provocazione che segnino “solo Dybala e Smalling”, e che adesso si vedono costretti a constatare che Belotti e Zaniolo “so poco cattivi davanti ar portiere”. Ma soprattutto sotto processo ci va questa linea difensiva troppo ancorata in basso. È tutto, difatti, un domandarsi del perché si difenda in tre contro una squadra in dieci (“ma o vedo solo io che questi, che so de meno, so de più de noi a centrocampo?”) e del perché questa palla transiti sempre in orizzontale (“nun c’è sta nessuno che, dritto pe dritto, imbuchi ‘n passaggio”), senza che nessuno la vada a prendere tra le linee (“se ne liberasse uno pe fassela passa’ dai difensori”). Si va al riposo, sull’uno ad uno, con i vecchi fantasmi che si riaffacciano. Ad alcuni, ma era inevitabile, riemerge il ricordo di quella maledetta domenica dell’86 (“te ricordi? La domenica dopo dovevamo anna’ a Como, e lì vincevamo sicuro se non perdevamo con questi”); a molti riemerge, viceversa, il ricordo, ma molto più prossimo, dell’ultima in casa persa contro l’Atalanta, dove, “a forza de magnasse go, la partita je l’hai regalata”. 
Malgrado ciò, il secondo tempo inizia benissimo. Ed inizia benissimo sia perché Mourinho decide di giocare con due punte e Spinazzola (“finalmente annamo a gioca’ laggiù”), sia perché, pronti via, Dybala segna (anche in questo caso, benissimo) il suo secondo rigore. Ma quel “benissimo” evapora nello spazio di quattro minuti. Dybala che si avvia verso la panchina, con Matic costretto subito ad entrare, fa finire le ottobrate romane e porta, d’imperio, l’autunno su tutta la Tevere. Quel cambio necessitato non piace a nessuno. E viene vissuto davvero male, al punto che il sedicente ortopedico, che stava per provare a dire la sua, prima ancora che riesca ad articolare un fonema viene zittito con feroce fermezza (“nun di’ na parola, nun è proprio er momento”). Dopo aver visto Abraham “magnasse la qualunque” e Pellegrini togliere un pallone a Zalewski che sarebbe stato meglio “se lasciava gioca’ quer pallone ar ragazzino”, la partita finisce. E quel fischio viene accolto con liberazione e disappunto. Perché, uscendo, si fanno si i conti con questi tre punti, che sono l’unica nota davvero positiva della serata, che ci portano a vedere il Napoli. E questo vuol dire che stiamo ancora lì. Ed allora si può riprendere a parlare del percorso, potendoci dimenticare, almeno fino a giovedì, della filiera di gol mangiati e dei passaggi in orizzontale. Ma questo non basta. Perché quel ghiaccio sulla coscia di Dybala non ci farà dormire tranquilli da qui in avanti. E la domanda, a questo punto, è solo una: chissà per quanto tempo non ci farà dormire. Chissà per quanto. Chissà. 

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