FILA 76

Rigore sfollagente

L’Olimpico, già stremato dalla prestazione, diventa teatro dell’assurdo. E una buona parte del pubblico, incredula, dopo i rigori sbagliati si alza e decide di andar via

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Federico Vecchio
04 Ottobre 2025 - 07:30

È inutile che sto qui a raccontarvi di quando ho parcheggiato la Vespa, dell’amico che ho incontrato e che con nome di fantasia chiamerò, della fila ai tornelli, di quando sono salito in Tevere. È inutile. Perché quello di cui devo (obbligatoriamente) dare conto è soltanto di quello che sta lì, ricompreso, più o meno, tra le otto e venticinque e le otto e trenta di un giovedì sera, in una serata con un freddo pungente che non mi sembra possibile che appena sabato scorso stavamo lì a chiederci se andarci a fare una spigoletta a Fregene. Questo concentrato di tutto è iniziato nel momento in cui abbiamo visto Celik («Che se lui è sempre er migliore in campo, famose ’na domanda …») gesticolare dopo avere colpito il pallone di testa dentro l’area avversaria. A quel punto, la scena era chiara: i nostri a reclamare in maniera convinta il rigore; quelli del Lille con la postura di chi vuole celare una colpa («Se stanno a move con l’aria de quello che mah, nun me pare, io non ho visto gnente»). La chiamata dell’arbitro al VAR arrivava, quindi, come una quasi certezza ed un regalo, perché fino a quel momento erano loro che avevano meritato, giocando meglio il pallone, correndo di più, avendo più occasioni («Meno male … pijamose ’sto pareggio…»). A quel punto abbiamo accompagnato il tragitto dell’arbitro, come dicevo, dal campo al video con una quasi certezza, nella quale il “quasi” non era nel perché non fossimo convinti del rigore («Lo vedi subito dalla reazione dei giocatori») ma perché l’arbitro non era sembrato essere fino a quel momento, diciamo così, proprio impeccabile («Questo è capace de anna ar televisore, chiede se je mettono er gioco dei Pacchi, che è ora, e poi di’ che nun è rigore…»). 

Ma il rigore veniva dato. Il gesto delle braccia dell’arbitro, che prima mimava il video e poi, a dito puntato, correva verso il dischetto, era la prova provata che, tolto il Torino, la fortuna, in questo inizio di stagione, si ricorda di noi. E lì iniziava, però, ad annidarsi il dubbio: «E mò chi lo tira?». La schiera, compatta, dei seggiolini a me prossimi non aveva dubbi: Soulé («È tranquillo, sa calciare, non ha paura di segnare»). Io, solo tra tanti, memore di ciò che avevo vissuto lo scorso anno, nei minuti di recupero, al Dall’Ara, a mezzo bocca dicevo «lo tira Dovbyk». Ma lo dicevo con voce strozzata, come mi faceva notare il seggiolino a me più prossimo, che aveva letto, nel mio tono di voce un «me sa che nun sei tanto convinto che lo segna…». No, non ero convinto. E non ero convinto perché, come si sbrigava a sottolineare un altro seggiolino, «Dovbyk è entrato adesso, non gli si può mettere tutta questa responsabilità addosso». Ma le voci erano tante: «È un rigore all’80’, in casa: pareggiamo e andiamo a vincere»; «Stai perdendo uno a zero. Hai giocato male. Loro hanno giocato meglio. Non hai praticamente mai tirato. Non si può sbagliare: prendiamoci ’sto pareggio e poi melina»; «Quattro punti dopo due giornate vanno benissimo». Ma, fin qui, il rumore dei seggiolini era quello che conosciamo, oscillante tra la certezza del gol e la necessità di provare a farne subito un altro

Ma è da quel momento in avanti che si apriva, davanti agli occhi della Tevere, un orizzonte mai esplorato da un tifoso giallorosso a far data dalla fondazione della AS Roma. Perché Dovbyk andava lì e calciava. E calciava male, praticamente in bocca al portiere, che si stendeva sulla sua sinistra ma che, per respingere quel pallone lento e senza vita, doveva impegnarsi ben poco («Tu me devi di’ se se pò tirà un rigore così?!»). Peraltro, sulla respinta del portiere Dovbyk si faceva anticipare da un avversario, aprendo la stura ai commenti che, sia pure diversi tra loro («L’ha sbagliato con la testa già prima di tirarlo»; «Voleva fare il fenomeno spiazzando il portiere»; «Non sa calciare di collo»), erano tutto accomunati dal medesimo sottotesto («Se ne deve annà!»). 

Ma l’arbitro, quello che non sai mai che può decidere, decideva per la ripetizione. In Tevere si esultava, ma meno rispetto a prima, perché adesso il problema che «prima dobbiamo segnarlo» appariva più evidente («Sì, ma mò va messa dentro»). 

Soulé andava a recuperare il pallone («Adesso si cambia piede: lo tira lui») e, non senza sorpresa nei più, lo consegnava a Dovbyk. A quel punto, tutti convinti che il trauma del precedente errore potesse averlo risvegliato («Adesso sfonda la porta») e che una punta vera «può sbagliare una volta, non due». Invece andava come sappiamo, e l’arbitro – che, a quel punto, era diventato uno di noi – diceva: riproviamo. In quell’attimo la Tevere, che non è un caso che sia profondamente romanista, non esultava appieno, perché va bene tutto, «ma nun se pò fa ripete un rigore tre volte». Prevaleva, difatti, in molti il sentimento di quelli che sono abituati a vincere sudando e soffrendo, ma mai niente di meno («Non è nella storia della Roma pareggiare una partita in questa maniera: non mi piace»). 

Ma Soulé faceva il Dovbyk. Ed a quel punto, mentre i seggiolini iniziavano a sfollare, mi arrivava nitido, alle orecchie, «ma non lo poteva tirà Pellegrini?», a cui faceva seguito un «Pellegrini era uscito» e, a seguire, «Allora lo doveva tirà Cristante». Ma mi mancava il coraggio di intervenire a mia volta per ricordare allo stordito seggiolino che pure Cristante era uscito. E tutto questo mi dava la misura che, alle otto e quaranta di un giovedì sera, eravamo andati tutti in confusione. Non solo Dovbyk, ma tutti. Ma adesso andiamo a vincere a Firenze, per favore. Sperando che non ci diano un rigore.

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