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cogito ergo sud

Che ci fa sentire uniti anche se siamo lontani

La Roma (e Il Romanista) al tempo del Coronavirus: la necessità, il dovere e la responsabilità di pensare all'altro. Anche se non ci conosciamo

10 Marzo 2020 - 09:30

Che senso ha parlare di Roma al tempo del Coronavirus? La Roma per i suoi tifosi non è solo una squadra di calcio ma un sentimento che col calcio ha a che fare paradossalmente poco. I sentimenti sono una cosa seria, e la serietà è un lasciapassare per parlarne. Ha a che fare con la socialità la Roma. Sono diventato romanista perché essere della Roma era un modo di vivere il quartiere da ragazzino (San Lorenzo): ballatoi, porte aperte alla e della vicina di casa, odori di fettina panata, il "cognacchino" che Amedeo si beveva durante le partite a metà secondo tempo...erano ritualità e dimensioni sociali che sembravano naturali. Bellissime.

La Roma è un abbraccio all'altro ancor prima di farlo per un gol allo stadio, dove la scoperta che non sei solo ti farà sentire sempre parte di una comunità speciale: la tua tifoseria. La tua squadra. Il tuo essere romanista. Non c'è Roma senza un altro romanista con cui condividerla. La Roma è condivisione, libertà, partecipazione. Oggi che chiudono non solo le porte degli stadi, ma quelle di casa che senso ha parlare della Roma e cosa scrivere su Il Romanista? Ha sempre lo stesso senso, e sempre di scrivere quello stesso sentimento si tratta: quello di essere legati, correlati all'altro (in questo caso pure a chi non ha la passione con i tuoi stessi colori). Anzi, soprattutto adesso. È la Roma che ci fa sentire uniti anche se siamo lontani no?, e adesso che siamo costretti a stare più lontani bisogna semplicemente essere più romanisti. Pensiamo agli altri. Stare a casa è un gesto doveroso e responsabile nel marzo 2020 non «un modo per costringerci a restarci quando viene la sera».

Quest'influenza non è un complotto di chissà quale sistema, quest'influenza ammazza le persone, è infame, ti prende e te ne accorgi dopo due settimane; è bastarda perché attacca facilmente quell'altro che costituisce il nostro completamento. Gli ospedali sono pieni, se continua così siamo all'inumanità di scegliere chi curare e chi no, non si possono fare i funerali ai propri cari, non ci stiamo rendendo conto di quello che sta accadendo anche perché è difficile rendercene conto. Non siamo abituati. Ed è proprio un attacco alle abitudini quello che va fatto. Siamo tipo in un film di quelli «pensa che brutto se fosse veramente così», ma te lo dici perché stai nella comfort zone inconscia del tuo popcorn mentre guardi lo schermo: ora non è un film e sei tu che devi avere uno schermo.

C'è la tranquillità che ti porti dietro per abitudine (o forse l'abitudine che nel quotidiano scambiamo per tranquillità) e ogni tanto sei pervaso da un attimo di consapevolezza di quello che sta accadendo. E ti preoccupi. Ed è giusto preoccuparsene. È doveroso allargare quell'attimo e farne casa propria. Tua, ma per gli altri (l'odore della fettina in fondo arriva lo stesso). Bisogna proprio fare questo: pre-occuparsi, cioè occuparsene prima. Di sé e degli altri. Perché le cose vanno sempre insieme anche se non lo capiamo mai abbastanza che «non si può essere felice se non lo sono neanche gli altri». Pensiamo all'altro. Cerchiamo di sentirci uniti anche se siamo lontani, anzi persino se non ci conosciamo. È sempre e soltanto quel modo di sentire che chiamiamo Roma. Il nostro essere romanisti sempre.

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