Cogito Ergo Sud

Totti-Bati-Montella

È il giorno del terzo tricolore atteso dall’epoca d’oro del 1983. La storia non si ferma davanti a un portone, pensa di fronte allo Scudetto della Lazio. Il 3-1 col Parma è l’apoteosi

PUBBLICATO DA Tonino Cagnucci
17 Giugno 2025 - 07:30

Era dal 15 maggio dell’83 che non si vedevano così tante bandiere allo stadio, era dal 15 maggio 1983 che non si vedeva così tanta gente. Non c’era un centimetro che non fosse stoffa, l’aria che sventolavano era colorata. Quando il Parma, poco meno di un’ora prima della partita, entra in campo e vede quel muro di carne, respiri e colori, capisce che non c’è niente da fare, che non deve fare niente, non si deve azzardare. Questo Scudetto è stato lo Scudetto delle persone: da quando lo aveva vinto la Lazio… «E se la storia non si ferma davanti a un portone», pensa se si ferma davanti a uno scudetto della Lazio. Anzi, semmai, accelera, lo scavalca, scegliete voi il verbo dell’andare oltre che preferite, del rimettere il mondo in sesto… un consiglio, forse è scucire. 

Lo è stato quando in quell’estate i ragazzi della Sud hanno fatto un corteo per le strade della città con lo striscione «Roma resta giallorossa». Che mi ha sempre ricordato il corteo fatto in città nel 1951 quando la Roma è retrocessa: il 17 giugno. È stato lo Scudetto della gente quando, più di qualsiasi altra volta, il presidente della Roma ha ascoltato il dolore e la rabbia dei suoi tifosi, perché era anche il suo dolore, era anche la sua rabbia («quanto ho sofferto quando persino dentro lo stadio di Parigi ho letto uno striscione: “Sensi vattene”») e dopo sette trofei vinti dalla Lazio di Cragnotti allora ha costruito una squadra da sogno, ha fatto l’acquisto più grande che potesse fare, 70 miliardi per Gabriel Omar Batistuta. Altro che veni, vidi, vici, a Batistuta è bastato un girone (più spiccioli) per prendersi e darci tutto. È stato lo Scudetto della gente quando l’Olimpico s’è riempito a ogni partita, e nei trentamila di Bari, nei quindicimila di Napoli, nei diecimila di Perugia, Parma, Firenze, Milano… 

E in quelli che riempivano i locali per vedere la Roma in tv. E per chi non poteva. E per chi non lo diceva. Per chi non c’era. Per tutti quelli che non abbiamo esplicitamente citato dal 1927, e poi dal 1942, poi dal 1983 e poi nei nostri Anni 90 di sofferenza e orgoglio. Per chi ha aspettato una vita e non ha potuto vederlo. Di Francesco Totti non vale. Lui era la gente, lui era il romanista in campo, lui più di qualsiasi altro ha definito lo Scudetto come quello dei tifosi, dopo il primo gol col Parma, ritornando a centrocampo Totti ha detto in mondovisione: «È vostro, è vostro». 

Lui che col Parma anni prima, per la prima volta, aveva indossato la maglia numero 10 e che in tribuna quel 17 giugno aveva mamma Fiorella, anche lei per la prima volta, con addosso la sua maglia. “È vostro”. È stato lo Scudetto dei tifosi della Roma e dei loro canti, del “Dammi i tre punti non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me! Tu sei sempre mia anche quando vado via, c’è solo l’AS Roma per me!”; di “Non smetterò mai di lottar, per questa maglia storica, il passato non si dimentica, ma battiamo le mani ai veri romani per questa città che è Magica!”. 

Del Commando che dal 1999 non guidava più la curva, e di chi invece l’ha guidata dalla stagione prima (gli As Roma Ultras). Dei tifosi, che andrebbero citati uno a uno (ci vorrebbe un libro delle presenze allo stadio, fatto solo con nomi e cognomi, una specie di Ulisse di Joyce dell’anagrafe romanista).  Perché, poi, quando dicono che i tifosi non contano niente, «è solo un modo pertenervi a casa e non farvi uscire quando viene la sera». E se vi dicono che i tifosi non sanno vedere le cose, allora leggetevi il volantino distribuito dai ragazzi della Sud prima di Roma-Parma, ore 15, del 17 giugno 2001: 
“Tifoso romanista. Inutile parlarti dell’importanza di questa partita che può consegnarci alla storia. Questo campionato è stato nostro per 33 partite e nessuno dovrà impedirci di festeggiare il successo finale! Oggi come non mai gli avversari dovranno avere paura di giocare nel nostro stadio; fai di tutto anche tu perché la Curva Sud sia una bolgia infernale per tutti i novanta minuti. Sì, perché durante quei minuti, in campo non ci sono i giocatori… in campo ci sei tu, tifoso romanista, e quando Totti, Montella o Batistuta o chiunque altro segnerà, quel gol lo avrai segnato tu, solo tu e nessun altro… è quello che hai sempre sognato!”.
Cioè quando Totti, Montella, Batistuta segneranno… pure l’ordine hanno preso. Altro che Profezia di Celestino (visto pure il colore che non è un granché)! «Blu è il tuo colore, il calcio è il nostro gioco, questo Scudetto è durato poco poco, alza gli occhi al cielo e guarda ‘sta città: è tutta giallorossa e te ne devi anna». È stata la canzone dell’estate. 

È stata la canzone della vittoria. È stata la canzone che si cantava a ogni angolo di Roma. Lo stadio era veramente dipinto di rosso inferno, di rosso cuore, di rosso fuoco, di rosso rosso. Lo Scudetto del 15 maggio 1983 è stato più giallo, più chiaro, più lucente di questo che è stato più profondo, più sofferto, più rosso. Quello stadio era il nostro cuore ed è esploso al 19’, praticamente allo stesso minuto di Pruzzo col Genoa e di Pruzzo con il Torino: assist da sinistra di Candela e tiro-fulmine di Francesco Totti, un gol che ha l’oro in bocca. Poi il raddoppio di Montella che suggerisce anche alla ragione che è già finita una partita che per il Parma non è mai veramente iniziata; poi il 3-0 di Batistuta al 33’ della ripresa, buono per piangere dopo diciotto anni, per piangere e abbracciarci dimenticando il gol di Di Vaio (buono solo per un altro 3-1 da tricolore della nostra storia), dimenticandoci di un’invasione scellerata e maledetta di «dilettanti», come giustamente li aveva definiti Capello, che probabilmente per la prima volta andavano allo stadio; ma chi c’era e c’era sempre stato alla fine di quel giorno senza fine si sentiva veramente una persona nuova. 

Avevamo vinto lo Scudetto strappandolo alla Lazio, avevamo vinto lo Scudetto dopo diciotto anni, e dopo diciotto anni ci chiedevamo ancora «cos’è?». 
E la cosa più commovente era scoprirci ancora bambini a non saperlo dire, ritrovandoci dopo diciotto anni a piangere e ad abbracciarci ancora e non saperlo dire. Quel giorno Francesco Lalli a 80 anni, uscì di casa e si mise a dipingere lo Scudetto per la Roma Campione. Era andato a vivere a largo dei Colli Albani, lì dove la Roma nel 1927 aveva giocato la sua prima partita. Noi cantavamo anche per lui, e per suo fratello Gioacchino in cielo: “Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi”. Siamo andati in giro per un mese senza tornare a casa perché casa nostra era la strada, casa nostra era Roma. 

Che cosa abbiamo fatto dopo per i prossimi ventiquattro anni rispetto a quei giorni? Siamo andati a letto presto, ma abbiamo fatto sempre quel sogno. È ora di svegliarci, ma solo per riviverlo.

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