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Kawasaki, all'origine della leggenda di Francesco Rocca

Così è nato il soprannome di uno dei terzini della Roma più forti di tutti i tempi. Di lui Bobby Moore disse: "È il prodotto di una razza nuova"

03 Gennaio 2019 - 14:44

Per Il Romanista l'anteprima di un libro che forse non vedrà mai la pubblicazione… L'ho scritto ed editato in quattro copie. L'ho scritto come alcuni dei miei libri (non tutti, ma devo dire un buon numero) soprattutto per me stesso. Per la curiosità di conoscere meglio un campione irripetibile della storia romanista che ha incarnato, forse come nessun altro, la proiezione dell'ideale di giocatore sognato dal tifoso della Roma. L'ho scritto perché Francesco Rocca per il riserbo che è ormai leggendario (ricordo due interviste dedicate a ripercorrere le tappe della sua carriera calcistica negli ultimi 25 anni), difficilmente parla del passato. Personalmente ho passato gran parte della mia vita a cercare di riportare alla luce il passato, è l'unica direzione che conosco per trovare il futuro.

"Kawasaki"

Mancavano due giorni alla vigilia di Natale del 1974 e tutti erano lì ad aspettare un regalo. Cosa ci sarebbe stato nel pacco? I desideri sarebbero stati appagati? La Roma giocava contro il Cesena, che le stava dando filo da torcere, con Prati che aveva segnato il gol del vantaggio e sempre di testa aveva levato dalla porta di Paolo Conti il tiro del pareggio bianconero. Eugenio Bersellini, tecnico dei romagnoli, quel giorno sapeva benissimo cosa avrebbe voluto da Babbo Natale: qualcuno in grado di fermagli Francesco Rocca. Era lì, in piedi, ai margini della sua panchina, con Boranga e Urban che non sapevano più dove guardare per l'imbarazzo. Stava lì e urlava contro Giovanni Toschi, detto Topolino, ala sinistra che come unica colpa aveva quella di essergli passato vicino: «Datti da fare Giovanni, apri gli occhi… Fermatelo, fate come volete, ma fermate quel dannato!».

Toschi allargò le braccia, poi proprio al suo fianco sentì un'onda d'aria improvvisa: è il 70', Rocca gli sfreccia davanti e inizia una percussione in accelerazione di ottanta metri. Quando piomba nella metà campo avversaria, Orlandi e Danova sono scoppiati e gli arrancano dietro come gli omini lontani di un panorama alpino. Zaniboni, dalla posizione di libero, caracolla come un disperato su di lui, correndo in orizzontale. È in vantaggio, e lo affianca a quattro, cinque metri dall'ingresso in area. Rocca allora butta ancora in avanti il pallone e con un'energia disumana imprime alla sua corsa un ultimo impressionante strappo. Zaniboni si accascia sull'avversario per stenderlo, mentre il portiere Galli arriva allo spigolo sinistro dell'area piccola dove si accartoccia e riesce a bloccare il tiro.
Quando negli spogliatoi, a fine gara, tornarono a parlargli di Rocca, "Topolino" non ebbe paura di dire la sua: «È una parola, e chi lo ferma a quello? Avete presente una motocicletta? Bene, a me Rocca fa questa impressione. Marcarlo? E come fai? Ti sguscia, salta, scatta, va via da tutte le parti. Certo il Mister aveva ragione, ma in campo c'eravamo noi…».

@LaPresse

"Una motocicletta", i giornalisti si guardarono e si accorsero che la definizione di Giovannino Toschi era piaciuta a tutti… in quel momento "la" motocicletta del sogno era la Kawasaki Mach III 500. Ebbene, se Rocca da quel momento doveva essere una motocicletta, non poteva che essere una Kawasaki. Quella moto, con il suo motore a tre cilindri, produceva un sibilo che ricordava gli aerei da caccia a reazione e proprio per questo aveva suggerito ai suoi produttori di far aggiungere alla denominazione commerciale del modello la sigla Mach III.  Quella moto era Francesco Rocca, una freccia che sibilava sulla fascia con la maglia numero 3 sulle spalle. Quel giorno Piero Di Biagio scrisse per Il Messaggero che Rocca aveva «attaccato sulle linee laterali volando nelle zone centrali, annientando gli avversari che tentavano di contrastare le sue discese». Enzo Petrucci, ancora più ispirato, per Momento Sera osservò che il romanista era «una forza scatenata e talvolta incontrollata della natura».

Nelle cronache di una partita di calcio difficilmente si usa un linguaggio simile. I giornalisti hanno rapporti con i giocatori, devono vederli quasi tutti i giorni, chiedere interviste, mantenere rapporti. Bisogna "saper vivere" e non si dice che qualcuno "annienta gli avversari", o che è una "forza incontrollata" della natura. D'altra parte gli allenatori, quantomeno per colpa di un solo uomo, non giungono ai livelli emotivi toccati da Bersellini… Ma Rocca, come diversi anni dopo avrebbe detto il campione del mondo Bobby Moore, era «il prodotto di una razza nuova» e per descriverlo occorreva utilizzare un linguaggio nuovo. Contro il Cesena, il 22 dicembre 1974, il rombo della motocicletta, che da qualche anno stava risuonando, divenne assordante. Tutti, ma proprio tutti, capirono che quell'anno sotto l'albero i tifosi della Roma avevano trovato un grande regalo: una Kawasaki su cui tutta una generazione salì senza esitazione, sognando con i capelli al vento. Rocca divenne "il campione" della gente, pronto a far rombare quel motore con tutta la forza che gli scorreva nelle vene, senza risparmi, senza calcoli e con una generosità che mai nessuno prima di lui, né dopo, aveva o avrebbe mai messo in campo … per questo la sua storia doveva essere raccontata. […]

Così ho iniziato il mio libro, intitolato (come poteva essere altrimenti?) semplicemente "Kawasaki" (che raccoglie anche tutte le figurine dedicate al mito giallorosso raccolte ed elegantemente inquadrate nel tessuto storico editoriale dell'epoca da Massimo Germani). Subito dopo l'incipit ho però inserito uno stralcio di un'intervista rilasciata da Francesco Rocca a Rino Neri Monti di Momento Sera e pubblicata nell'edizione del 6/7 agosto 1975.  Ho voluto queste parole all'inizio del libro e a mio avviso, quando la Roma riuscirà finalmente ad edificare il suo stadio, andrebbero scolpite sulle mura che condurranno i giocatori al campo… Chi gioca nella Roma dovrebbe incarnare tutto quello che viene descritto dalle frasi pronunciate da Rocca.  Lui lo è stato e lo è: «Ognuno di noi forse nasce con un destino, nel senso che nasce con delle attitudini specifiche per fare qualcosa; e credo che se al mondo molti si sentono infelici o insoddisfatti è proprio perché hanno tradito quella che era la loro vocazione. Io sono nato per giocare, per correre e per lottare: a questo punto sento anche di poter dire che sono nato per giocare nella Roma, perché, se dovessi passare in un'altra squadra, anche di primissimo piano, farei la fine di quei pesci che cominciano a deperire quando cambiano acqua.Ormai un pubblico come quello romanista, che ti grida tutta la sua passione, che ti fa capire quanto ti vuole bene anche quando magari ti prende in burletta e ti rovescia addosso epiteti un po' pesanti, è parte integrante della mia personalità di atleta, e non so come potrei farne a meno. In questi anni alla Roma abbiamo avuto dei momenti difficili, davvero angosciosi, dei periodi nei quali non ce ne andava bene una neanche per sbaglio, eppure io sono sempre stato convinto che la squadra c'era, che prima o poi avremmo trovato il modo di esprimerci per quello che valevamo veramente, e intanto stringevo i denti e ci davo dentro con tutti il fiato che avevo in corpo e mi arrabbiavo da morire se vedevo qualche compagno che dava l'impressione di non voler sudare e soffrire quanto me. […] Francesco Rocca, detto Kawasaki, metterà insieme il giro del mondo a furia di correre dietro a un pallone. Ma per uno come me, che si sente vivo soltanto se corre, il mondo è persino troppo piccolo».

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