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Il derby più derby al Flaminio 11 leoni in campo e il «puntino» Totti fra i duemila

Il 18 marzo del 1990 una delle stracittadine ricordate con più orgoglio dai tifosi. I giallorossi vinsero per 1-0 grazie al gol di Rudi Voeller

A sinistra, Voeller segna il gol dello 0-1, a destra la copertina della rivista ufficiale La Roma dedicata al derby del Flaminio

A sinistra, Voeller segna il gol dello 0-1, a destra la copertina della rivista ufficiale La Roma dedicata al derby del Flaminio

18 Marzo 2023 - 14:30

«Piangi Di Canio, piangi». Non lo scriveva il giornalino del CUCS ma Massimo Gramellini su La Stampa il 19 marzo 1990. Prima riga del suo articolo sul derby: «Piangi Di Canio, piangi. Il giovane leader della Lazio imita l’Occhetto bolognese», con riferimento alla svolta nella sinistra italiana. Anche quel giorno, il 18 marzo 1990, è dalla sinistra che viene la svolta attesa da troppi anni. Dalla sinistra alla mezzora del primo tempo, dopo una rimessa laterale strappata alla Lazio, un tocco di Di Mauro e l’azione di Peppe Giannini che va su quella fascia fino a crossare per una fantastica smanacciata di Orsi sulla testa di Rudi Voeller. Il tedesco che vola sta lì. Appollaiato. Al tedesco che vola sempre più alto delle aquile sembra persino troppo facile farlo più della papera del loro portiere. Gol 1-0 per la Roma, alla mezzora del primo tempo e fino alla fine della partita. E ancora oggi. Gol ora e sempre, Lazio-Roma 0-1 il derby del Flaminio del 1990. 
Mai stato così derby quel derby, e non è un’iperbole. L’Olimpico lo stavano rifacendo (distruggendo, rovinando) per i Mondiali del ’90 e la Roma – anche se filosoficamente è un concetto impossibile – sulla carta giocava in trasferta. I biglietti destinati ai romanisti attorno ai duemila: praticamente niente. Non c’è mai stato un derby con così pochi romanisti presenti allo stadio, e non c’è stato – anche per questo – un derby così romanista per la compattezza, lo spirito di gruppo, il galvanizzarsi nella difficoltà che animano quei «pochi felici pochi manipolo di fratelli» al Flaminio e che costituiscono il nostro dna. È un derby stravinto sugli spalti, con un ultrà della Roma, Ceciola, che entra in campo e dà a tutti i giocatori della Roma una maglietta con uno smile e la scritta «Lazio! No grazie!». Quando la consegna a Voeller, il Tedesco se lo abbraccia. I calciatori faranno l’ultimo riscaldamento con quella maglietta. Sugli spalti si sentono solo i tifosi della Roma. Ma questo si sa. In campo è derby con due espulsioni laziali (Bergodi e Troglio) quando a loro sta saltando tutto (41’ e 42’st): un palo, una traversa, tante occasioni. I cuori a mille dall’inizio alla fine, quando sarà solo festa nostra. Smodata. Nervosa. Sentita. Meritata.
 Tancredi esce dal campo in canottiera e sembra lo stesso che, dopo aver vinto a Pisa nell’86, era andato a piangere urlando sotto la Curva dell’Arena Garibaldi. C’è una specie di mini-invasione di campo per abbracciarsi quelli che quel giorno vengono considerati dei veri e propri eroi. Giannini a fine partita dirà a chi accuserà lui e tutti i calciatori di aver giocato un derby troppo teso e aver così contribuito a scaldare gli animi sugli spalti: «Chi non ha giocato a calcio non sa che si prova in campo in un derby. Non dico che devi fare a botte ma può capitare una spinta. Noi abbiamo giocato col cuore». Quello ce l’hanno messo tutti quella domenica di marzo. Era una Roma che giocava col cuore e la Sud lo cantava al Flaminio. 
La domenica prima con la Samp, quando erano già entrate in campo le squadre, si poteva leggere in Curva un omaggio al tecnico di quella Roma profondamente testaccina: «Un uomo solo al comando, con 11 leoni al suo fianco, la sua maglia è giallorossa, il suo nome è Gigi Radice». In quel derby anche i leoni si sarebbero ritirati di fronte a quella Roma e a quei duemila impazziti di gioia sugli spalti. 
Un giorno, molto tempo dopo, nella Mostra a Testaccio organizzata dai tifosi della Roma, di fronte a una foto di quella partita, Francesco Totti – vedendola –  indicherà il settore romanista e dirà: «Quel puntino ero io». Era lui, a tredici anni e mezzo, uno dei «pochi felicissimi pochi» che avevano visto la Lupa vincere. «Quel puntino ero io». Quello che piangeva in mezzo al campo invece era Paolo Di Canio.

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