Interviste

ESCLUSIVA - Parla Tempestilli: «Gasperini cambierà la Roma»

Parla il doppio ex di Roma-Inter a Il Romanista: «Il mio addio ancora una ferita aperta. Sono abbonato e vado in trasferta, mi piace il progetto»

(GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Iacopo Savelli
18 Ottobre 2025 - 07:30

Tonino Tempestilli è un pezzo di Roma e la Roma è un pezzo di lui. Calciatore, allenatore, Team Manager e poi Responsabile organizzativo della prima squadra fino al divorzio, subìto non voluto, dopo 33 anni. Una ferita aperta di cui parleremo in questa intervista che rilascia al Romanista mentre si gode al mare questi giorni di riverbero d’estate, che però non ha minimamente intaccato il suo amore per la squadra del cuore. Il racconto parte dagli Anni 80, dal Banco di Roma all’Inter e dall’Inter al Como, dove è rimasto cinque anni e per 190 partite tra serie A e serie B e una finale di Coppa Italia contro la Roma mancata per un soffio.  

«Sì, nel 1986 con Rino Marchesi in panchina. Nella semifinale di andata pareggiammo a Marassi con la Sampdoria 1-1, stesso risultato al ritorno poi dopo il gol di Borgonovo nei supplementari, l’arbitro Redini concesse un rigore alla Samp e fu colpito da un oggetto piovuto dalla curva. Partita sospesa, 0-2 a tavolino e in finale vinse la Roma col famoso gol di Cerezo che dopo quella partita si sarebbe trasferito a Genova». 

Tutto sommato buon per la Roma contro cui eri imbattuto da tre anni.

«È vero, furono cinque pareggi fino a quel Como-Roma che arrivò dopo Roma-Lecce. Nelle settimane precedenti ero stato subissato da richieste di amici e avevo comprato non so quanti biglietti, ma tanti eh! Dopo quell’assurdo ko all’Olimpico mi arrivarono le disdette, per fortuna in società mi diedero una mano a piazzarli altrimenti ci avrei rimesso parecchi soldi. I giallorossi arrivarono svuotati, non ci credevano più e non fu la partita che avrebbe potuto essere. E che emotivamente mi avrebbe messo in grande difficoltà». 

Come sei arrivato a Roma?

«A Como avevo fatto bene, cinque stagioni con una promozione e due salvezze tranquille in serie A. Mi seguivano in tanti, ad esempio Napoli e Juventus, ma quando si è fatta sotto la Roma non ci ho pensato un minuto.  Per coronare il mio sogno ho rinunciato ad ingaggi migliori senza nessun rimpianto: alla fine sono rimasto in giallorosso per 33 anni». 

Il primo anno chiudeste terzi, poi non avete più fatto così bene in campionato.

«Sì, è vero, ma non eravamo una grande squadra. Sono stati anni un po’ strani, l’emozionante stagione del Flaminio con Radice aveva creato un’alchimia unica tra di noi, ma per vincere serviva qualcosa in più anche se avevamo dei campioni come Voeller, Bruno Conti e Giannini. Ma con Ottavio Bianchi ci siamo presi delle grandi soddisfazioni nelle Coppe».

Vinceste la Coppa Italia, ma immagino che quel successo non abbia cancellato il rimpianto per l’Uefa.

«Beh no, quella doppia finale con l’Inter la giocammo alla pari, anzi: all’Olimpico avremmo meritato di arrivare come minimo ai supplementari. Purtroppo, fu decisivo l’arbitraggio di Spirin a San Siro. L’anno dopo andammo a Mosca a giocare contro il CSKA in Coppa delle Coppe, eravamo nella hall dell’albergo quando a un certo punto arrivò Mascetti con un signore e un bambino: era lui, Spirin. No, non lo abbiamo insultato tanto non avrebbe capito niente e poi stava con il figlio. È finita con autografi e fotografie». 

I tuoi allenatori a Roma sono stati Liedholm, Radice, Ottavio Bianchi e Boskov: sei andato d’accordo con tutti?

«Direi di sì. Il Barone era un fenomeno e mi aveva voluto a Roma; di Radice ti ho già detto, Bianchi lo avevo avuto anche a Como e non era burbero come sembrava. Boskov mi ha fatto giocare poco ma ho rispettato le sue decisioni. Ho sempre e solo pensato ad allenarmi bene e a dare tutto, che scendessi in campo o andassi in panchina. Poi si è ammalato mio figlio di tumore e per curarlo sono stato un anno a Parigi. Non avevo più la testa per fare il calciatore così, nonostante il presidente Sensi mi volesse rinnovare il contratto di un anno, chiesi di fare altro. Volevo stare sul campo ed è arrivata l’opportunità di allenare i Giovanissimi. La mattina ero in sede a studiare i regolamenti con il mio grande amico Aldo Bernabei che purtroppo non sta bene e saluto con immenso affetto, il pomeriggio allenavo i ragazzi. Abbiamo vinto il campionato ma la cosa più bella è il rapporto che si è creato tra noi: erano tutti figli miei ed è così ancora oggi, tanto che continuiamo a sentirci e vederci spesso».

Poi Sensi ti chiese di diventare dirigente.

«Sì, avevo molti dubbi, volevo continuare ad allenare i ragazzi. Ma il presidente mi disse che Fernando Fabbri cominciava ad avere bisogno di una mano e voleva che la cosa fosse affidata ad una persona di sua totale fiducia. Così prima l’ho affiancato, poi sostituito».  

Nella tua lunga carriera da Team Manager hai lavorato con otto allenatori, vediamo se riesci a descrivermeli tutti con una parola. 

«Carlos Bianchi? Inadeguato. Zeman? Testardo. Capello? Professionale. Spalletti? Studioso. Ranieri? Esperto. Luis Enrique? Innovatore. Garcia? Grandeur. Di Francesco? Zemanino (piccolo Zeman, ndr)».

Mi pare di capire che con Garcia non hai legato tanto.

«Diciamo che era un po’ presuntuoso ma tra di noi non è mai successo nulla». 

La Roma di Pallotta a tratti è stata fortissima: perché non ha vinto nulla?

«Domanda difficile alla quale rispondere, non credo ci sia un motivo unico o specifico. È vero, ci sono state stagioni in cui eravamo uno squadrone, ma c’è da dire che per lo scudetto abbiamo trovato sulla strada una Juventus eccezionale. Potevamo conquistare qualche trofeo di contorno ma credo ci sia mancata la mentalità giusta per entrare in campo con la stessa voglia di vincere che l’avversario fosse il Manchester in Champions o lo Spezia in Coppa Italia. Peccato». 

Vuoi dire qualcosa in più sui motivi che ti hanno spinto ad andare via?

«Guarda, io alla Roma ho dato più che alla mia famiglia, 33 anni sono una vita intera. A un certo punto Guido Fienga mi comunicò che avrei dovuto fare da vice ad una persona che non aveva né la mia storia, né la mia esperienza. Non avendo addebiti di alcun tipo di cui dovermi giustificare, l’ho considerata una profonda ingiustizia e non l’ho accettata. Se mi chiedi se la ferita si è rimarginata ti rispondo di no: fa ancora male anche perché dentro Trigoria sono rimaste persone che non se lo meritano. Se ci fossi stato ancora io, ti assicuro che non sarebbe mai accaduto di sbagliare una lista Uefa o fare sei sostituzioni un una partita».

Però sei abbonato e vai addirittura in trasferta e non solo in Italia.

«Con gioia ed orgoglio, la Roma ce l’ho dentro e continua a far parte della mia vita anche se ora finalmente al primo posto c’è la famiglia. Sono stato a Nizza per l’esordio di Europa League, gran bella partita, la stagione è partita bene».

Gasperini cambierà la Roma o viceversa?

«Nessun dubbio: Gasperini cambierà la Roma. Sono anni che fa cose eccezionali, il suo calcio è un marchio di fabbrica e lo farà vedere anche qui, è solo questione di tempo. Intanto stanno arrivando i risultati e con i risultati si lavora molto meglio».

Dove può arrivare realisticamente?

«Sono in cinque per i quattro posti che valgono la Champions. Secondo me Inter a Napoli a parte, ma bisogna sempre far parlare il campo, con le altre se la può giocare». 

Dovbyk o Ferguson?

«Serviranno e faranno bene entrambi. La prima stagione di Dovbyk non è stata male, molti dei gol che ha segnato sono stati importanti o decisivi e la concorrenza può aiutarlo a fare di più. Ferguson due anni fa era uno dei migliori prospetti europei, poi si è infortunato e ha giocato poco. Ma ha fisico e per quello che ho visto anche buona tecnica; gli attaccanti con Gasperini sono sempre migliorati e hanno fatto tanti gol, li faranno anche loro».

Nel calcio di oggi contano solo i soldi?

«Per traguardi tipo la Champions League sì, poter comprare venti giocatori top anche solo per tenerli in panchina fa una differenza enorme. Per altri obiettivi c’è ancora spazio per la bravura, la preparazione, le intuizioni. A patto di un’unità di intenti assoluta tra tutte le parti in causa».   
Un’ultima cosa, se hai voglia di parlarne. Hai giocato con Borgonovo e Signorini che sono morti di SLA, hai mai avuto paura di ammalarti?
«Paura no, però mi sono fatto delle domande. Anche io in quegli anni ho preso i farmaci leciti che mi davano i medici, tipo Micoren o Esafosfina. Credo fossero in buona fede, io lo ero sicuramente. Ma ho visto troppi calciatori della mia generazione colpiti da malattie terribili, non ho certezze, ma qualcosa non torna».

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