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l'intervista

Flavio Cobolli: "La porto ovunque"

Le parole a Il Romanista del vincitore del doppio juniores al Roland Garros: "La sciarpa giallorossa sempre con me. Ereditate da mio padre le passioni per tennis e Roma"

12 Ottobre 2020 - 07:49

Parigi val bene una festa. Soprattutto se a caratterizzarla è la sciarpa con i colori del cuore. Quelli della Roma nel caso di Flavio Cobolli, classe 2002, trionfatore al Roland Garros nel doppio juniores in coppia con lo svizzero Stricker, insieme al quale già lo scorso anno aveva sfiorato la vittoria, arrendendosi soltanto all'ultimo atto.

Questa volta ce l'ha fatta e il primo gesto appena conquistato il titolo è stato alzare al cielo la sciarpa della sua Roma. «La porto sempre con me», ha rivelato a Il Romanista il ragazzo dal doppio talento, calcistico (ha giocato per cinque anni nelle giovanili giallorosse) e tennistico. Alla fine ha optato per quest'ultimo e il recente risultato di prestigio gli dà ragione. Senza dimenticare il primo amore.

Complimenti per il successo.
«Grazie, sono felicissimo».


Due finali in due anni: il Roland Garros è il tuo torneo.
«Così pare e mi fa molto piacere, è sempre stato il mio preferito».


È anche quello di Nadal, che ha battuto Djokovic.
«Questo mi fa meno piacere, speravo vincesse il serbo».


È lui il tuo riferimento?
«Sì, con Fognini. È guardando lui e Murray che ho iniziato a praticare il tennis. Nadal mi piace poco, così come Federer».

Eppure a Parigi hai giocato in coppia con uno svizzero.
«È stata una scelta un po' casuale, nata lo scorso anno, quando nessuno dei due aveva ancora il compagno: Stricker mi ha contattato e ci siamo trovati bene, è un ragazzo molto simpatico, quest'anno gli ho chiesto io di riprovarci».

La scuola italiana appare in crescita: oltre a te, Eleonora Alvisi e Lisa Pigato hanno vinto nel doppio femminile.

«Sono state bravissime anche loro, abbiamo approfittato dei rispettivi successi per brindare insieme».

Qual è il tuo colpo migliore e in cosa pensi di dover migliorare?
«Il meglio lo esprimo nel rovescio, devo lavorare un po' sul dritto e molto sul servizio».

La tua superficie preferita?
«In realtà non ne ho una, mi adatto facilmente. Mi piace il cemento, ma sulla terra gioco il mio tennis, è lì che ho imparato da piccolo».

E sull'erba?
«Ho poca esperienza, avrei voluto farla a Wimbledon, ma purtroppo è saltato e mi dispiace molto perché lì si vive un'atmosfera unica».

Musetti, Sinner e te, nati dopo il 2000, sulle orme di Fognini e Berrettini: è il ritorno in grande stile del tennis azzurro?
«Lo spero. Conosco bene entrambi, Fognini è un idolo, ci siamo visti nell'ultimo periodo, mi sono allenato con lui. Berrettini lo conosco da più tempo, anche perché è stato allenato da mio padre e da Vincenzo (Santopadre, ndr)».

Poi è romano come te e come uno dei più grandi italiani di sempre, Adriano Panatta.
Non l'ho mai incontrato di persona, ma anche se ha giocato in un'altra epoca ovviamente conosco le sue gesta, è un Dio del tennis, come si fa a non ammirarlo?».

Tifate per la stessa squadra.
«Lo so. Ma io per riconoscere un romanista devo guardarlo in faccia».

Tutti hanno visto la tua sorridente a Parigi mentre sollevavi la sciarpa della Roma.
«È stato un gesto istintivo, che poi è diventato virale sui social».

L'hai portata in Francia, immaginavi di usarla e forse non per ripararti dal freddo.
«Porto la sciarpa della Roma con me. Sempre e ovunque».

Da dove nasce l'idea?
«Stavo andando ad abbracciare mio padre e me l'ha passata dicendomi "senza questa non vai da nessuna parte". Aveva ragione».

Sei figlio d'arte per tennis e tifo: quale dei due aspetti ha influito di più su di te?
«Non saprei dirlo. Mio padre è tifosissimo, pur senza influenzarmi ha spinto per farmi giocare a calcio, sarebbe stato un sogno vedermi calciatore della Roma».

Ma...?
«Ma il mio obiettivo attuale è superare il suo piazzamento in classifica. Fra noi c'è sana competizione».

Però nelle giovanili della Roma hai giocato per un bel po'.
«Sì, per cinque anni, fino ai tredici e mezzo, poi ho dovuto fare una scelta fra i due sport».

Cosa ti ha fatto propendere per il tennis?
«Mi piace fare le cose da solo, far dipendere i risultati da me e basta. Ma il calcio lo adoro, ci gioco ancora».

Anche Bruno Conti scelse fra il calcio e un altro sport per cui era molto portato.
«Il baseball, lo so. Per fortuna lui ha fatto la scelta giusta. È stato fra i primi a congratularsi con me dopo la vittoria al Roland Garros».

Prima della pallina, ti ha visto alle prese col pallone e sostiene fossi un terzino destro molto promettente.
«Correvo tanto, usavo entrambi i piedi, mi mettevo a disposizione della squadra. Descritto così magari sembro un po' presuntuoso, ma credo me la cavassi benino».

Rimpianti?
«Quando ho dovuto affrontare qualche brutta sconfitta ho pensato "forse da calciatore sarebbe andata meglio". Ma poi mica è detto, dipende dagli infortuni e da fattori imponderabili. Va bene così».

La Roma cerca ancora l'interprete più adeguato a destra: non è che ci ripensi?
«Ti giuro che se mi dicessero: "Vieni e giochi in prima squadra" lascerei il tennis domani. Per la Roma lo farei. Il calcio mi piace talmente tanto che non escludo di riprendere anche nelle categorie inferiori, una volta chiuso con la racchetta».

Calafiori che era tuo compagno ce l'ha fatta a esordire in A.
«Ne sono felicissimo, l'ho sentito il giorno precedente il debutto contro la Juventus e gli ho rivolto i miei più sinceri complimenti. Se lo merita, è un bravissimo ragazzo, genuino, rimasto umile anche ora che si è affacciato in prima squadra».

Senti ancora qualcuno di quella squadra?
«Sono rimasto in contatto con Bove, Astrologo e con Cesaroni, che nel frattempo è passato dall'altra parte. Loro e Riccardo, con cui ho frequentato l'ultimo anno di scuola. Dovremmo sostenere insieme anche l'esame di maturità».

Andavi allo stadio?
«Sempre. Mio padre è abbonato da 25 anni e io ci ho messo piede quando avevo due anni, le mie prime foto sono sulle scale della Sud».

Quindi hai frequentato la Curva e sai quanto può spingere.
«Sì, mi sono abbonato anche io, continuando ad andare con il mio amico Lorenzo e i rispettivi papà. La Sud è la cosa che manca di più alla Roma, a me invece manca lo stadio e non poter cantare i cori».

Sei stato anche dall'altro lato: quanto influisce il pubblico?
«In positivo e in negativo, come in tutto. A me il pubblico aiuta, non averlo è difficile, però è anche vero che attenua qualche tensione».

A stadi riaperti cosa farai?
«Eh, ci tornerò subito».

Sei nato un anno dopo l'ultimo scudetto. Qual è stata a tua gioia più grande da tifoso?
«Roma-Barcellona, come pure il gol di Toni con l'Inter e la Coppa Italia del 2008, anche se ero piccolo».

La sofferenza più grande?
«Una finale persa di cui non voglio parlare. Ho vissuto male gli addii di Totti e De Rossi. Per il primo ho pianto di più, ma Daniele...».

...Daniele?
«È sempre stato il mio idolo. Era il primo tifoso in campo, pochi sono stati come lui in tutto il mondo».

Il tuo preferito attualmente?
«Mancini: mi sembra uno che cerca di essere solo se stesso».

Se potessi realizzare due sogni da qui a un anno, cosa vorresti?
«Vorrei scalare quanto più possibile la classifica. Vorrei vedere la Roma allenata da Daniele. E magari più in là, con Calafiori Capitano».

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