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Il presidente uscente

Col senno del noi. L'uscita di scena in silenzio di James Pallotta

I rimpianti di Pallotta. Esce di scena sconfitto a causa delle troppe promesse mancate. Si tuffò in piscina per formare un gruppo, ha tacciato di egoismo molti suoi collaboratori

James Pallotta, di LaPresse

James Pallotta, di LaPresse

17 Agosto 2020 - 13:00

Uscirà di scena in silenzio James Pallotta, 24º presidente della storia della Roma che forse non avrà mai un posto d'onore tra le bacheche dei massimi dirigenti della Roma di un futuro museo tematico, anche se forse sarà quello che più di tutti quel museo l'avrà voluto.


È un po' il suo triste destino. Nella transizione dall'antichità delle gestioni unifamiliari alla modernità delle multinazionali, Pallotta ha lasciato il suo segno distintivo in una Roma che è entrata a gonfie vele nel futuro, a suon di accordi internazionali che hanno rilanciato l'immagine della società ben al di sopra dei meriti del campo. Resterà questo il suo cruccio maggiore. In fondo, quando con straordinario tempismo attoriale, al termine di un bel discorsetto motivazionale si tuffò tutto vestito nella piscina gelida di Trigoria - era il 9 gennaio 2012 - per spingere gli attoniti osservatori della scenetta (tesserati e lavoratori della As Roma) a rompere gli schemi perché era arrivato il momento in cui bisognava dare qualcosa in più, gli unici che non gli sono andati dietro nel tempo sono stati proprio i calciatori, nel senso della squadra che non ha aggiunto una sola coppa alla bacheca dal giorno in cui il finanziere di Boston ha acquisito la maggioranza delle azioni del club. Pallotta uscirà idealmente oggi da quella piscina, si rialzerà e non troverà nessuno stavolta a porgergli l'asciugamano.


Sono già tutti da un'altra parte, ad ossequiare il nuovo proprietario.
Pallotta in questi giorni era tentato di raccontare la sua versione della storia, ma ha capito che non è ancora il tempo. Forse detterà solo qualche riga di saluto, giusto per questioni di etichetta. Ma non può certo essere contento di ciò che la sua Roma sul campo ha raccolto, né di quella bruttissima frattura con una consistente parte della tifoseria giallorossa che lui per primo, magari involontariamente, ha contribuito a determinare. Sa di aver fatto molte cose buone nella costruzione di un club che doveva strutturarsi per competere, nei suoi disegni, fino ad entrare in pianta stabile nell'élite del calcio continentale. Lascia quando lo stadio sta per essere approvato, triste contrappasso di una vicenda che non è mai stata raccontata con il dovuto rispetto, per via di rancorucci di bottega, di presunti primati editoriali, di antipatie coltivate con scientifico disprezzo. Lui sa di aver commesso tanti errori, il principale dei quali è quello di non essere riuscito ad imporre il "noi" come concetto filosofico di base per la gestione della società, lasciando che invece tanti "io" si prendessero i meriti, rifuggendo anno dopo anno i demeriti. Sa di aver esagerato quando ha usato parole di elogio sperticato per collaboratori che poi non sempre hanno reso secondo le aspettative. E si è trovato spesso da solo quando ha dovuto prenderne atto, trovando soluzioni che un po' sbrigativamente sono state definite all'americana, ma sempre nella speranza di fare il meglio per la Roma.


Ecco, questo è il motivo principale della sua ossessione. Accusato di aver pensato sempre agli affari suoi, si è ritrovato perseguitato da questa macchia quando in cuor suo era convinto di aver dato mille prove per dimostrare il contrario. Dalla vicenda stadio all'assunzione di collaboratori sempre prestigiosi, i migliori disponibili sul mercato, senza badare a spese, tanto ne avrebbe risposto lui: cercava il meglio per la Roma, sperava di poter condividere con ciascuno di loro l'orgoglio, l'importanza di un brand, un nome, una filosofia caratterizzante, un marchio universale da esportare. Ma si è ritrovato invece troppo spesso a fare i conti con l'ego di giocatori, allenatori, direttori sportivi, direttori commerciali e dirigenti vari che al momento decisivo mettevano sempre in secondo piano la Roma invece di rinunciare a qualcosa di personale per costruire qualcosa che durasse nel tempo. Dal 2018 ha deciso di non tornare più a Roma, ferito profondamente dalle insolenti parole che a un certo punto sono state rivolte anche ai suoi familiari: «Questo non lo posso permettere». Da allora decise di guidare la società da lontano, alzando di un grado il livello di spietatezza nelle decisioni. Ne ha fatto le spese anche il fido Baldissoni, l'unico dirigente presente nel club (formalmente dal 2013) dal primo all'ultimo giorno. Eppure demansionato nell'ultimo rimpasto proprio per una certa incapacità di affondare il colpo quando necessario, anche nei confronti di chi non stava facendo il massimo per aiutare il club a crescere. Ma gli ha affidato, non a caso, il file più importante, quello del progetto stadio, riconoscendogli quindi una capacità professionale e implicitamente uno status morale di altissimo profilo.


Gli allenatori sono stati un'altra nota dolente, e lì ha pagato cara la sua incompetenza calcistica. Si è fidato di quello che gli raccontavano, ha scambiato risultati importanti ma magari estemporanei assegnando patenti di santità, stracciate alla prova dei fatti, con cadute sempre più rumorose di quanto avrebbero meritato. E ha affrontato i declini tecnici di Totti e De Rossi senza indulgenze tifose, un altro dei peccati mai emendati. Al suo fianco c'è stato, quasi sempre, anche Franco Baldini, grillo parlante di tutta l'avventura, facile bersaglio per gli alibi dei dirigenti sconfitti e caprio espiatorio dei mancati i risultati, ma unico consigliere realmente seguito, col vizio di non volersi prendere dirette responsabilità. Il loro rapporto andrà oltre la Roma anche se ha inevitabilmente risentito delle tensioni che hanno preceduto il deal con Friedkin. Resterà in sella il suo ultimo fedele ammiraglio, Guido Fienga, a lui l'onere di traghettare la Roma da una proprietà all'altra. Pallotta ne ha sempre ammirato lo spirito imprenditoriale unito a una certa glacialità nei trattamenti. E anche in quest'ultima vicenda i due si sono confrontati spesso per ritrovarsi quasi sempre dalla stessa parte.


Finisce così un decennio di sogni e disillusioni, con la bacheca scarna come prima a dispetto di troppi proclami. Finisce, però, con una società forte, un'ottima squadra e il futuro garantito dall'imminente realizzazione dello stadio. Ci ha rimesso anche un sacco di soldi, ma questa è forse la cosa che gli importa meno. La Roma, per lui, resterà sempre una fantastica storia d'amore chiusa non per sua volontà, non del tutto almeno. E quando gli capiterà di rivederla, come ogni innamorato tradito, gli tremeranno sempre un po' le gambe.

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