AS Roma

Roma-Parma e lo stadio della luce

Lo Scudetto della gente: mai tante bandiere dall’83. Un muro umano e di colori che ha annichilito gli avversari

(Almanacco Giallorosso)

PUBBLICATO DA Tonino Cagnucci
29 Ottobre 2025 - 07:30

E poi la gente, perché è la gente che fa la storia, quando si tratta di scegliere e di andare, te la ritrovi con gli occhi aperti che sanno benissimo cosa fare…: portare una bandiera allo stadio e cantare. La storia siamo noi il 17 giugno 2001 perché questo Scudetto è stato lo Scudetto della gente. Era dal 15 maggio dell’83 che non si vedevano così tante bandiere allo stadio, era dal 15 maggio 1983 che non si vedeva così tanta gente. Raccontare Roma-Parma 3-1 del 17 giugno 2001, ultima partita di un campionato dominato ma non ancora vinto, è restituire lo sguardo di quello stadio, di quelle bandiere: non c’era un centimetro che non fosse stoffa, l’aria che sventolavano era colorata. Quando il Parma, poco meno di un’ora prima della partita, entra in campo e vede quel muro di carne, respiri e colori, capisce che non c’è niente da fare, che non deve fare niente, non si deve azzardare. Thuram si guarda intorno e rimane a bocca aperta, Buffon e Cannavaro quasi saltano con i tifosi della Roma che chiedono loro di andare a giocare lì il prossimo anno. È lì che abbiamo battuto il Parma.

La storia siamo noi il 17 giugno 2001, perché questo Scudetto è stato lo Scudetto delle persone: da quando lo aveva vinto la Lazio, l’anno prima, si era scoperta una città che non solo non era a festa ma era mortificata da qualcosa di antistorico. «E se la storia non si ferma davanti a un portone», pensa se si ferma davanti a uno scudetto della Lazio. Anzi, semmai, accelera, lo scavalca, scegliete voi il verbo dell’andare oltre che preferite, del rimettere il mondo in sesto… Un consiglio, forse è scucire. Lo è stato quando in quell’estate i ragazzi della Sud hanno fatto un corteo per le strade della città con lo striscione «Roma resta giallorossa». Che mi ha sempre ricordato il corteo fatto in città nel 1951 quando la Roma è retrocessa. È stato lo Scudetto della gente quando, più di qualsiasi altra volta, il presidente della Roma ha ascoltato il dolore e la rabbia dei suoi tifosi, perché era anche il suo dolore, era anche la sua rabbia («quanto ho sofferto quando persino dentro lo stadio di Parigi ho letto uno striscione: “Sensi vattene”») e dopo sette trofei vinti dalla Lazio di Cragnotti allora ha costruito una squadra da sogno, ha fatto l’acquisto più grande che potesse fare, 70 miliardi per Gabriel Omar Batistuta, e altrettanti per Walter Samuel, Emerson da Rosa, Jonathan Zebina, Gianni Guigou, il ritorno di Abel Balbo… È stato lo Scudetto della gente quando a inizio giugno del 2000 c’era una Curva piena alla presentazione del “Re Leone”, è anche lì che l’abbiamo vinto, è anche così che l’abbiamo vinto. «Quando ho capito di aver vinto lo Scudetto? Subito, quando ho scelto la Roma. Pochi ci credevano, forse solo io e i tifosi», saranno le 17:30 del 17 giugno del 2001 quando Batistuta dice a petto nudo queste parole nello spogliatoio. Lo Scudetto è vinto da meno di mezz’ora (Riccardo Cucchi, il radiocronista di “Tutto il calcio minuto per minuto”, per una singolare scelta non dice l’orario della vittoria: erano le 17:03), ma per il “Re Leone” è vinto da un anno e undici giorni.Altro che veni, vidi, vici, a Batistuta è bastato un girone (più spiccioli) per prendersi e darci tutto: la prima doppietta a Lecce alla seconda giornata (con un colpo di testa dal limite dell’area), la tripletta a Brescia, altri due gol a Verona con una punizione che spacca la porta oltre che la traversa, il gol per antonomasia dell’ex alla Fiorentina con le lacrime, la  doppietta proprio al Parma all’ultima d’andata in una partita che somiglia tanto alla nostra Pisa ’83, anche per la gente che c’era (e che è franata a migliaia sulle ginocchia dell’argentino). 

È stato lo Scudetto della gente quando la Curva, alla presentazione degli altri acquisti (Samuel, Emerson, Zebina, Balbo, Guigou…) a inizio agosto, s’è riempita nuovamente. Quando Emerson ha pianto dopo essersi infortunato, quando col Napoli è rientrato, quando a Bologna ha segnato. È stato lo Scudetto della gente quando l’Olimpico s’è riempito a ogni partita, e nei trentamila di Bari, nei quindicimila di Napoli, nei diecimila di Perugia, Parma, Firenze, Milano… E in quelli che riempivano i locali per vedere la Roma in tv. E per chi non poteva. E per chi non lo diceva. Per chi non c’era. Per tutti quelli che non abbiamo esplicitamente citato dal 1927, e poi dal 1942, poi dal 1983 e poi nei nostri Anni 90 di sofferenza e orgoglio. Per chi ha aspettato una vita e non ha potuto vederlo. «È un sogno questo Scudetto, ma non l’hanno vinto solo i giocatori, sono i tifosi che ci hanno sempre accompagnato, ma quest’anno è stato qualcosa di incredibile e oggi poi… È bello festeggiarlo adesso a casa nostra», è la sera del 17 giugno 2001 quando Vincenzo Montella lo dice a casa sua. Vincenzo Montella che nel girone di ritorno ha fatto… Batistuta: i voli con l’Udinese, l’Inter, il Brescia, il Verona, l’Atalanta, il gol che sta al Louvre contro il Milan all’Olimpico e quello che sta nel cuore all’ultimo istante a Torino con la Juve...

Volete sapere che è successo il 6 maggio 2001 a Torino, in Juventus-Roma prima di tornare al sole di Roma-Parma? Si tratta di qualche riga e pochi secondi. Sono contati: Quarantacinque minuti e zero secondi del secondo tempo: 2-1 per loro, che in quel momento stavano a 3 punti soltanto a 5 giornate dalla fine dalla Roma prima. Quarantacinque primi e un secondo, Zebina ha appena preso la palla da Nakata e avanza dalla trequarti, non si sa bene dove ma scatta palla al piede. Quarantacinque minuti e due secondi del secondo tempo, il quarto uomo alza la lavagnetta luminosa: adesso mancano 5 giornate alla fine e 5 minuti di recupero. Il totale ancora non si può fare. Zebina ha ancora la palla e va ancora avanti e non si sa bene ancora dove, ma va avanti. Improvvisa una serpentina stile Benatia con la Samp a Genova alla quinta giornata della Roma dei record iniziali di Garcia. Non passa. Lui, la Roma, la palla che viene respinta indietro quasi naturalmente calamitata da Nakata. Più o meno da dove, dal Giappone, aveva tirato undici minuti prima l’incredibile pallone dell’1-2 che aveva ridato speranza a tutti: a Zebina, ai diecimila romanisti che stavano allo stadio anche se i biglietti a loro disposizione erano 3.900, a qualsiasi romanista che da qualsiasi parte del mondo conosciuto stava guardando gli ultimi 4 minuti e 58 secondi di questa partita valida per tutto. Nakata stavolta non tira, respira, appoggia, allarga, immediatamente a sinistra per Candela che si chiama Vincent che in italiano sarebbe Vincenzo che a scriverlo è solo una banalità, ma che adesso qua, proprio al termine di questa azione, è un nome che ci sta benone. Non è tempo per gli scherzi, mancano meno di cinque minuti alla fine e la gente romanista sta aspettando da 18 anni questo momento. Questo Scudetto. Candela crossa basso al centro ma il pallone viene respinto da qualche altra gamba sghemba bianconera, allora il francese cerca alleanze intercontinentali e riappoggia al giapponese, quasi a suggerirgli con la sua lingua un déjà-vu, come a dirgli: «Tira di nuovo come prima, tira di nuovo, è più o meno da lì». Hidetoshi Nakata – essere umano benedetto, progettato per fare del bene al mondo, il 6 maggio 2001 è subentrato a Totti al 14’ del secondo tempo – sta per cambiare nuovamente questa partita infinita: tira come prima e più di prima, di prima, di destro, al 45’ e 18’’. Sul cronometro fra 45’ e 19’’ quando Edwin van der Sar respinge perché stavolta ci arriva. Stavolta, ma la volta dopo no. E la volta dopo è la volta delle volte. La volta dopo è un secondo, lungo diciotto anni, corto come la gamba di Montella che, arpionando l’aria, tocca in rete. È il 45’ e 20”, cioè il 46’st, il 91’, cioè è il 2-2, è il più 6 dalla Juve, e più o meno lo Scudetto. 

La vita scoppia nel settore ospiti: gambe al posto delle teste, braccia prestate alla gravità, corpi fluttuanti fra primo e secondo anello. Fabio Caressa, commentando in diretta a Tele+ nero, dice la cosa più giusta: «Descrivere adesso la curva della Roma è impossibile». Impossibile. Impossibile descrivere tutto e tutti. Anche poco. Come fai a non parlare di Marcos Cafu, per esempio? Marcos Cafu, arrivato nel 1997 con Zeman, è stato insieme a Damiano Tommasi il giocatore più forte di quel campionato, ed è ancora adesso semplicemente il più forte terzino destro non solo della storia della Roma, ma della storia del calcio. Come fai a non parlare di Damiano Tommasi, arrivato nel 1996 con Carlos Bianchi, e di Marco Delvecchio, arrivato nel 1995 con Mazzone, che nella loro lunga e gloriosa storia hanno trasformato i fischi non in applausi, ma addirittura in cori: «Gioca bene o gioca male, lo vogliamo in Nazionale», per Tommasi, mentre l’«E facci un gol, e vai Delvecchio facci un gol» (mutuato da Pruzzo) per un attaccante che in quella stagione ha giocato da esterno a sinistra, ma che faceva sempre (a parte la finta in cui cadeva Alessandro Nesta) la cosa più bella per un romanista: i gol alla Lazio. In quel campionato fu superato, lui come Batistuta e Montella, solo da un altro calciatore: Paolo Negro, difensore della SS Lazio che la notte santa del 17 dicembre 2000 ci ha regalato per sempre uno dei derby più grandi mai giocati e sicuramente il più importante: Lazio-Roma 0-1, al 70’ autorete di Paolo Negro. Go. Come Totti go. Vabbè quasi. Perché di Francesco Totti non vale. Ne parleremo solo quando smetterà di giocare. Lui era la gente, lui era il romanista in campo, lui più di qualsiasi altro ha definito lo Scudetto come quello dei tifosi, dopo il primo gol col Parma, ritornando a centrocampo Totti ha detto in mondovisione: «È vostro, è vostro». È nostro, è nostro, è suo, è loro, di Francesco Antonioli, di Carlos Zago (che sembrava Falcao), di ollellè ollallà Vincent Candela Vincent Candela, di Cristiano Zanetti, Eusebio Di Francesco, , di Cristiano Lupatelli che ha giocato fino a quando ha portato fortuna, di Aldair Nascimento do Santos, l’ultimo regalo di Viola alla Roma che dopo 11 anni e una carriera esemplare da campione del Mondo col Brasile finalmente si regala qualcosa con la Roma, lui che aveva lasciato tre anni prima la fascia di Capitano a Francesco Totti. Francesco Totti. Lui che col Parma anni prima, per la prima volta, aveva indossato la maglia numero 10 e che in tribuna quel 17 giugno aveva mamma Fiorella, anche lei per la prima volta, con addosso la sua maglia. «È vostro, è vostro». È stato lo Scudetto dei tifosi della Roma e dei loro canti, del «Dammi tre punti non chiedermi niente, dimmi che hai bisogno di me! Tu sei sempre mia anche quando vado via, c’è solo l’AS Roma per me!»; di «Non smetterò mai di lottar, per questa maglia storica, il passato non si dimentica, ma battiamo le mani ai veri romani per questa città che è Magica!». Del Commando che dal 1999 non guidava più la curva, e di chi invece l’ha guidata dalla stagione prima (gli As Roma Ultras). Dei tifosi, che andrebbero citati uno a uno (ci vorrebbe un libro delle presenze allo stadio, fatto solo con nomi e cognomi, una specie di Ulisse di Joyce dell’anagrafe romanista).  Perché, poi, quando dicono che i tifosi non contano niente, «è solo un modo per tenervi a casa e non farvi uscire quando viene la sera». E se vi dicono che i tifosi non sanno vedere le cose, allora leggetevi il volantino distribuito dai ragazzi della Sud prima di Roma-Parma, ore 15.00 del 17 giugno 2001: «Tifoso romanista. Inutile parlarti dell’importanza di questa partita che può consegnarci alla storia. Questo campionato è stato nostro per 33 partite e nessuno dovrà impedirci di festeggiare il successo finale! Oggi come non mai gli avversari dovranno avere paura di giocare nel nostro stadio; fai di tutto anche tu perché la Curva Sud sia una bolgia infernale per tutti i novanta minuti. Non dobbiamo avere paura del risultato ma, piuttosto, dobbiamo cantare incessantemente con rabbia, con la nostra rabbia di tifosi della Curva Sud. Siamo ad un passo dal successo e l’eventuale vittoria finale potrà essere soprattutto la nostra vittoria. Sì, perché durante quei minuti, in campo non ci sono i giocatori… in campo ci sei tu, tifoso romanista, e quando Totti, Montella o Batistuta o chiunque altro segnerà, quel gol lo avrai segnato tu, solo tu e nessun altro… è quello che hai sempre sognato!!!...».

Cioè quando Totti, Montella, Batistuta segneranno… pure l’ordine hanno preso. Altro che Profezia di Celestino (visto pure il colore che non è un granché)! Macché Celestino! «Blu è il tuo colore, il calcio è il nostro gioco, questo Scudetto è durato poco poco, alza gli occhi al cielo e guarda ‘sta città: è tutta giallorossa e te ne devi annà». È stata la canzone dell’estate. È stata la canzone della vittoria. È stata la canzone che si cantava a ogni angolo di Roma. È stato lo Scudetto di Roma per come ha trattenuto il fiato quella settimana dopo il pareggio 2-2 di Napoli, quando per la prima volta in molti hanno avuto paura di perdere una cosa che per merito, giustizia divina e soprattutto umana, sentivamo e avevamo sempre sentito come nostra. È stata forse la settimana più lunga della storia della Roma, ma poi quando è arrivata ci siamo detti senza dircelo – a parte qualche volantino e passaparola da radio e sito – che la storia eravamo noi e che solo il Parma si doveva sentire escluso. 

Lo stadio era veramente dipinto di rosso inferno, di rosso cuore, di rosso fuoco, di rosso rosso. Lo Scudetto del 15 maggio 1983 è stato più giallo, più chiaro, più lucente di questo che è stato più profondo, più sofferto, più rosso. Fa ridere il dato del tabellino di nemmeno 25.000 biglietti venduti: allo stadio non si riusciva a mettere piede per terra e le immagini finali con il campo completamente pieno di gente e le tribune ancora piene di persone valgono più di una dimostrazione matematica. Quello stadio era il nostro cuore ed è esploso al 19’, praticamente allo stesso minuto di Pruzzo col Genoa e di Pruzzo con il Torino: assist da sinistra di Candela e tiro-fulmine di Francesco Totti, un gol che ha l’oro in bocca. Poi il raddoppio di Montella che suggerisce anche alla ragione che è già finita una partita che per il Parma non è mai veramente iniziata; poi il 3-0 di Batistuta al 33’ della ripresa, buono per piangere dopo diciotto anni, per piangere e abbracciarci dimenticando il gol di Di Vaio (buono solo per un altro 3-1 da tricolore della nostra storia), dimenticandoci di un’invasione scellerata e maledetta di «dilettanti», come giustamente li aveva definiti Capello, che probabilmente per la prima volta andavano allo stadio; ma chi c’era e c’era sempre stato, alla fine di quel giorno senza fine si sentiva veramente una persona nuova. Fabio Capello, il gioiellino ceduto da Marchini, l’allenatore stra-campione col Milan, era come fosse tornato trent’anni dopo anche lui per realizzare quel sogno. È stato l’allenatore vincente, duro, arcigno, razionale: senza di lui, la sua disciplina, la sua esperienza, il suo carisma non so se l’avremmo vinto questo Scudetto. Di sicuro, oltre alla gestione apparentemente sbagliata di Montella (gli ha tirato una bottiglietta a Napoli quando è entrato in campo, e qualcuno se l’è bevuta questa storia), la mossa di Delvecchio in ripiego e in sacrificio esterno a sinistra, il mini-turnover scaramantico Antonioli-Lupatelli, la sua mossa più bella per me fu proprio quella di urlare tutto il suo disappunto in faccia a chi si era permesso di rischiare di rovinare il momento più bello del romanista. Lì è stato come una tigre che sta per azzannarti non appena vede che solo stai guardando i suoi cuccioli. Una lupa. Avevamo vinto lo Scudetto strappandolo alla Lazio, avevamo vinto lo Scudetto dopo diciotto anni, e dopo diciotto anni ci chiedevamo ancora «cos’è?». E la cosa più commovente era scoprirci ancora bambini a non saperlo dire, ritrovandoci dopo diciotto anni a piangere e ad abbracciarci ancora e non saperlo dire. Quel giorno Francesco Lalli a 80 anni, uscì di casa e si mise a dipingere lo Scudetto per la Roma Campione. Era andato a vivere a largo dei Colli Albani, lì dove la Roma nel 1927 aveva giocato la sua prima partita. Noi cantavamo anche per lui, e per suo fratello Gioacchino in cielo: «Siamo noi, siamo noi, i campioni dell’Italia siamo noi». Siamo andati in giro per un mese senza tornare a casa perché casa nostra era la strada, casa nostra era Roma. 
Che cosa abbiamo fatto dopo per i prossimi venti anni rispetto a quei giorni? Siamo andati a letto presto, ma abbiamo fatto sempre quel sogno. Quello che avevamo vissuto.

© RIPRODUZIONE RISERVATA

CONSIGLIATI