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Toninho Cerezo: "Vi porto nel cuore, la Roma è sempre grande"

L'ex centrocampista giallorosso si racconta nell'intervista al Romanista: "La Roma è stata la grande opportunità della mia vita, un'esperienza fantastica"

, di LaPresse

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18 Novembre 2018 - 12:00

Toninho Cerezo c'ha fatto divertire, si è divertito e ha ancora tanta voglia di divertirsi. Ha regalato gioia ai romanisti col suo calcio fatto di corsa, tecnica, genialità e generosità. Ma si è fatto amare prima ancora che per l'intelligenza calcistica, per la sua capacità di immergersi in mezzo alla gente. Alla Roma è arrivato nel 1983. Tre anni dopo è stato venduto alla Sampdoria più forte della storia blucerchiata. Poi è tornato in Brasile per vincere col San Paolo, ma prima di arrivare in Italia aveva già fatto le fortune dell'Atletico Mineiro. Lo spirito di Cerezo è sempre lo stesso, anche a 63 anni (64 il 21 aprile, non un giorno qualsiasi). È lo spirito di un brasiliano che da noi all'inizio ha anche sofferto di nostalgia, ma che poi è diventato romanista come i ragazzi di quella curva che andava sempre a salutare, e che adesso fa l'allenatore con la stessa voglia di quando era calciatore. La sua allegria è rimasta quella di una volta. Ce la trasmette, come se lo avessimo davanti agli occhi, quando ci risponde al telefono per concederci l'intervista concordata qualche giorno fa. «Eccomi. Sono pronto».

Toninho, come stai?
«Tutto bene, a parte un po' di raffreddore. Come al solito arrivo in Italia pensando che sia caldo invece fa un freddo bestia. Ma come fate a sopportarlo?».

L'Italia fa parte ancora della tua vita?
«Italia mia (due parole che dice cantando ndr). Dieci anni da calciatore non si dimenticano. E devo restarci per un po' adesso, seguo il corso a Coverciano da allenatore di prima categoria. Italia mia... (lo ripete cantando di nuovo ndr)».

Chi c'è con te al corso?
«Che voi conoscete, c'è Mancini. Mancini quello che ha giocato con la Roma. Lui fa il corso con me. E poi tanti italiani con qualche allenatore straniero. È il Master, per capirci meglio».

A 63 anni ancora hai voglia di studiare?
«Sì, ho 63 anni. Dopo i 60 diventa un casino. Ma non mi fermo».

A Coverciano il corso. Ma dove stai adesso?
«A Genova. In questo periodo di corso sarò qui: fa freddo, ma c'è mia figlia Luana, sta sempre con me. Lei è rimasta qui, è tifosa doriana».

La vita da allenatore com'è?
«Fare il calciatore era più facile. Con la palla c'erano meno problemi. Fare l'allenatore non è mica semplice. Ci vuole la squadra forte, altrimenti sono guai. Poi, come al solito, l'allenatore sta sempre da solo. Non lo aiuta nessuno».

Da quando non vieni a Roma?
«Due anni. Dal giorno della mia presentazione nell'Hall of Fame del club. Che giornata, ragazzi. Ho pianto come un bambino per la gioia. Non riuscivo neanche a parlare per l'emozione. Dopo tanti anni sono tornato e ho pianto come l'ultima volta in cui ho indossato la maglia giallorossa. Troppo bello. La società ha fatto una grande cosa per me. È stato fantastico. Penso di ritornare tra un po' a Roma. Dovrei fare un salto da voi nei prossimi giorni».

Soltanto un salto?
«Forse qualcosa in più».

Quando?
«Il giorno di Roma-Real Madrid, il 27 novembre. Per la Coppa dei Campioni e la festa di Totti».

Roma cos'è per te?
«È stata la grande opportunità della mia vita, la prima vera opportunità. Un'esperienza favolosa. Poi è arrivata Genova. Due città tanto diverse».

Tanto quanto?
«Tantissimo. Parlo di tifoserie. Il tifoso romanista è un po' sudamericano, è fantasioso. Il tifoso giallorosso vive per la squadra la mattina, il pomeriggio, la sera e penso anche quando dorme. Un calciatore a Roma può anche giocare male una partita, ma per il tifoso cambia poco. Il romanista anche se hai fatto qualche cazzata ti viene a salutare, se ti incontra ti offre un caffè. Ha l'allegria tipica dei brasiliani. Il genovese ti vuole bene in un altro modo. Ti guarda. Ti ammira. Ma resta distante. Non si avvicina. Non c'è il contatto che si crea a Roma. Mi considero fortunato per aver giocato a Roma e Genova, inoltre in due grandissime squadre».

Col tifoso giallorosso è stato colpo di fulmine?
«In un certo senso sì. E col passare del tempo l'amore è cresciuto. Il calore umano dei romanisti è unico, porto con me ricordi indelebili».

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Uno in particolare?
«Dopo la finale di Coppa dei Campioni persa in quel modo, i romanisti cantavano "Grazie Roma". In nessun altro posto si trova gente così. Ce n'è anche un altro, adesso che ci penso».

Quale?
«L'incitamento dei tifosi quando ho sbagliato i due calci di rigore contro l'Inter. Da un'altra parte sarebbe successo un macello. Invece all'Olimpico è andata in modo diverso. "Cerezo, Cerezo", tutto lo stadio urlava il mio nome. Ho quasi benedetto il palo e Zenga che mi hanno fatto provare quell'emozione, tanto abbiamo vinto lo stesso».

Con la maglia della Roma hai giocato 124 partite segnando 25 gol.
«Facevo segnare soprattutto gli altri. Io di gol ne facevo pochi. Pruzzo è stato capocannoniere, pure Vialli con la Sampdoria. A Belo Horizonte c'era Reinaldo, andate a vedere i gol che ha fatto. Al San Paolo segnava Raí. Agli attaccanti facevo arrivare palloni puliti perché mi piaceva avvicinarmi fino all'area».

Il gol che ricordi con maggior piacere?
«Li ricordo quasi tutti, ma il più significativo è stato l'ultimo, segnato nell'ultima partita con la Roma, per giunta contro la Sampdoria».

In finale di Coppa Italia
«Sì. Eriksson pensava che non ce l'avrei fatta a giocare, ero stato infortunato. Infatti non mi fece giocare dall'inizio. Entrai quando mancavano cinque minuti al 90', e fu subito gol. È stato il miglior saluto che potessi regalare ai tifosi della Roma. Con la seconda Coppa Italia vinta in tre anni».

Quella Roma era forte. Non poteva vincere di più oltre a due coppe Italia?
«In effetti sì. Il vero rammarico dei miei tre anni alla Roma è stato non aver vinto un trofeo più importante. Ci siamo andati vicini però. Siamo arrivati sempre secondi. Siamo stati lì. Purtroppo aver perso Carletto Ancelotti per infortunio è stato un duro colpo, la sua assenza si è fatta sentire».

Soprattutto nella finale di Coppa dei Campioni.
«Sì, molto. Purtroppo è andata così. Tante volte ho immaginato di rigiocare quella partita. Il destino ha voluto che io non sia riuscito ad arrivare alla fine dei supplementari, i crampi mi costrinsero ad uscire prima. Il calcio non ha una ricetta pronta. La vita del calciatore è questa: si guadagna tanto, si vince, ma bisogna anche saper perdere».

Finiamo i ricordi brutti. Roma-Lecce: come è stato possibile perdere quella partita?
«Magari avessi avuto la bacchetta magica per cambiare quella partita o la palla di vetro per sapere prima che sarebbe potuto succedere. Io ero squalificato, non ero in campo, ma è stato comunque tremendo».

C'è un avversario che non sopportavi quando giocavi?
«Non avevo tempo per pensarci. A me interessava altro: giocare a calcio, avere il pallone tra i piedi il più possibile. Qualcuno stronzo lo trovavi sempre, è normale. In tanti casi dovevi essere furbo e saper gestire i momenti, soprattutto in Italia dove si giocava un calcio fisico, con marcature a uomo, dovevi essere preparato perché da un momento all'altro poteva scapparci anche la rissa. Da questo punto di vista sono riuscito sempre a controllarmi bene».

L'avversario più forte che hai incontrato?
«Se posso, a questa domanda voglio rispondere con un aneddoto particolare che mi è rimasto dentro e che non dimenticherò mai».

Quale?
«Ero appena arrivato alla Roma, stavamo giocando un torneo estivo in Olanda: c'eravamo noi, il Benfica e due formazioni olandesi. Era l'estate del 1983 per capirci. Abbiamo affrontato il Feyenoord nell'esordio. Con loro c'era un calciatore che stava sempre al posto giusto, stoppava, guardava, metteva il pallone dove voleva: avrò provato a toglierglielo almeno quattro-cinque volte, e non ci sono mai riuscito. Non si trattava di uno forte fisicamente, ma in pratica era come se lo fosse. Non c'era niente da fare, vinceva sempre e comunque lui. Per tutto il primo tempo fu così. Poi, al rientro dagli spogliatoi, mi si avvicinò "Cerezo, come va". Un olandese che mi parlava salutandomi in spagnolo. "Sono felice che sei venuto in Europa, sei un calciatore moderno, mi piaci". Cazzo: era Cruijff. Il più grande. E sapete cosa ho fatto nel secondo tempo?».

Cosa?
«L'ho lasciato perdere, ho rinunciato ad andargli contro tanto la palla non l'avrei mai presa. Il calcio è questo: a volte ti regala emozioni particolari. Incontrare Cruijff è stata un'emozione che non dimenticherò mai».

Il giocatore più forte con cui hai giocato.
«La mia più grande fortuna è quella di aver giocato con tanti campioni. Mi ha aiutato a far emergere le mie qualità. Non potrei citarne solo uno. Alla Roma avevo tanti compagni forti. A Genova Vialli e Mancini erano giovani ma avevano una grandissima voglia di vincere e tanta personalità».

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Il compagno ideale.
«Mi trovavo bene con tutti grazie al carattere. Io volevo soltanto giocare. Non avevo preoccupazioni particolari. Essere una prima donna non è mai stato un mio interesse. Quando torno a Roma vedo Pruzzo e Di Carlo. Ma ho uno splendido rapporto anche con gli altri: Carletto Ancelotti, Bruno Conti era fantastico, Nela, Righetti, Chierico. Ricordo con grande affetto Maldera e il capitano, Agostino che mi aiutò tanto al mio arrivo a Roma dandomi molti consigli».

Qual era il tuo rapporto con Falcao?
«In campo era un campione e anche fuori dal campo voleva essere sempre il protagonista assoluto. Quindi mi trovavo benissimo con lui perché a me di essere il protagonista non fregava un cazzo. Paulo mi ha aiutato tantissimo, è una delle persone che mi ha dato di più, lui mi ha fatto crescere. Ha spinto molto affinché la Roma mi comprasse».

Con Liedholm?
«Il Barone era unico. Se giocavo male la domenica, il martedì alla ripresa degli allenamenti mi veniva vicino e io già sapevo cosa avrebbe detto. "Cerezo, hai giocato benissimo, ma questa settimana comunque ti allenerai di più". Il Barone era questo, una persona speciale. Tutta un'altra cosa rispetto agli altri».

Con Eriksson?
«Gentile, cortese, educato. Ma sembrava un po' senza sale. Non so se mi spiego: gli mancava il sale. Era difficile relazionarsi con lui, il rapporto con Eriksson non è stato lo stesso che ho avuto con Liedholm e Boskov. Anche con Boskov come con il Barone era bello rapportarsi».

Ma è vera la storia che alla Sampdoria comandava Mancini e non Boskov?
«Non era proprio così. C'è una premessa da fare, alla Samp giocavamo un calcio facile: si perdeva palla e ognuno aveva il proprio uomo da marcare. Tutti noi eravamo responsabili di un avversario da controllare. Quella era una squadra forte caratterialmente. Vialli, Mancini, Pari, Vierchowod, Mannini erano tutti uomini di spessore, riuscivano a tenere il gruppo unito e compatto, dentro e fuori dal campo. Questo era il nostro segreto. Così Boskov aveva pochi problemi da risolvere. Però non tollerava che si dicesse qualcosa sul suo poco potere, non sopportava questa storia. "Cerezo... Mancini pensa di comandare, ma non comanda nulla perché qui comando io". Lo diceva quando litigavano».

Quanto fu difficile per te lasciare la Roma?
«In quei momenti fu drammatico. Io volevo restare e a un certo punto della vicenda pensavo che sarei rimasto in giallorosso. Amavo la città. Non volevo andarmene. Avevo fatto bene: con me la squadra aveva raggiunto dei risultati. Ma Eriksson aveva le sue idee e ha voluto cambiare. Ci rimasi male perché era un piacere giocare nella Roma. In pochi minuti cambiò la mia vita: entrai nella finale di Coppa Italia, segnai, salutai tutti per andare alla Samp».

Quindi è stato Eriksson a non volerti più? Non Viola?
«Che sia stato Eriksson o sia stato Viola cambia poco. Anzi non cambia nulla. La cosa che conta per me è l'amore dei tifosi della Roma. Ogni volta che ritorno a Roma tutti mi dimostrano un grandissimo affetto».

Perché proprio la Samp?
«In un primo momento dovevo andare al Milan, poi ci furono dei problemi. A quel punto pensavo di restare a Roma. Quando capii che non era possibile, il mio procuratore, che a quei tempi era Canovi, mi propose la Sampdroia: mi parlava bene della società e della città. Così ho deciso di far fare il suo corso alla vita. Canovi aveva ragione. A Genova sono stato bene».

Ma avevi litigato con Viola?
«Non fu un litigio vero. Almeno per me. Ma il presidente non la prese bene».

Come andò?
«Ero stanco di non sapere quale sarebbe stato il mio futuro. Un giorno dovevo andare via, l'altro dovevo restare, il seguente andare via di nuovo. Mi ero stufato di restare sospeso in questo modo. E allora decisi di andare dal presidente. "Cosa devo fare, deciditi e fammi sapere. Io non voglio restare appeso in questo modo". Gli parlai così. Lui ci rimase male. E io andai a Genova».

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E fu così che si chiuse la storia di Cerezo in giallorosso. Toninho, la Roma attuale la segui?
«Un po' sì. Adesso anche più di prima. L'ho trascurata nei periodi in cui ho allenato in Giappone. Dal Brasile è più facile seguirla, soprattutto se non alleno. La Roma è sempre grande. Resta un team di livello. Quando c'ero io lottavamo sempre per vincere in tutte le competizioni. Ora accade lo stesso. La Roma è sempre lì. Ai vertici. C'è sempre la Juve purtroppo. Il solito avversario: loro sono potenti, sono sempre lassù. La Roma mi piace, gioca bene con Di Francesco, giocava molto bene anche con Spalletti. Fa un buon calcio e ha giocatori forti in rosa. Se non era forte non sarebbe arrivata in semifinale di Coppa dei Campioni».

Un'altra volta contro il Liverpool.
«L'ho seguita con una certa tensione quella doppia sfida, da tifoso giallorosso. Mi è dispiaciuto per i romanisti».

Il giocatore della Roma che preferisci.
«Dzeko. Un grande centravanti. Non è facile trovare un attaccante della sua stazza con quell'abilità tecnica. Avere un calciatore così è importante, lo avessi avuto io nelle ultime squadre che ho allenato... Nel calcio moderno avere una bestia del genere aiuta tanto, soprattutto dopo aver perso Totti, ma Francesco prima o poi doveva smettere, purtroppo».

Hai visto il suo addio al calcio?
«Certo. Mi sono emozionato anche io. Francesco merita tutto questo affetto, ha dato tanto alla Roma, ha dato tutto alla città. Rappresenta il simbolo. Lui e Bruno Conti sono la storia giallorossa e i tifosi devono essere orgogliosi di averli avuti in squadra».

Il cuore di Dio è sempre giallorosso?
«Dipende (e ride)».

Come dipende?
«C'è mia figlia qui che mi ascolta. Lei è doriana (ride). Il cuore di Dio è grande, quasi tutto giallorosso».

Ti aspettiamo il 27 a Roma.
«Sicuro. Sarà una grande serata di Coppa dei Campioni: ci vediamo all'Olimpico».

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