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L'analisi di Roma-Lecce

Tre punti d'anima: con il Lecce una vittoria meritata

La Roma ha raccolto solo nel finale quanto seminato. Mourinho si è giocato l’all-in, ma certe vittorie portano il suo timbro

Lukaku abbracciato dai compagni dopo la rete al Lecce

Lukaku abbracciato dai compagni dopo la rete al Lecce (GETTY IMAGES)

07 Novembre 2023 - 08:14

Quanto possa cambiare la dialettica intorno al calcio lo sa ogni tifoso che ha visto la partita di domenica e magari adesso ci sta riflettendo sopra. Inutile scriverlo, tornate semplicemente indietro con la memoria, allo stato d’animo al 90º di Roma-Lecce, un’altra partita che sembrava maledetta, un po’ come quelle con Salernitana e Verona di inizio stagione, non per caso squadre fortemente indiziate di retrocessione. Un po’ come il Lecce, che dopo un inizio roboante ha vistosamente rallentato la sua corsa. Ripensate a quel che stavate prefigurando al 90º, all’esercito di antimourinhani pronti a sparare addosso ad ogni bersaglio mobile dalle parti di Trigoria, o all’esercito dei mourinhani che avrebbe conosciuto corpose diserzioni, o al più nutrito esercito semplicemente di tifosi, tutti talmente innamorati della propria squadra da sentire la sofferenza sulla carne viva, come una ferita che sanguina, mentre Strefezza prendeva quel pallone lasciato passare da Renato Sanches, proprio l’uomo che aspettavamo con più impazienza (dopo Paulino, ovviamente), e però calciava fuori di 1 centimetro la palla dello 0-2 che avrebbe definitivamente abbattuto i nostri sogni di Champions League.

Come pensate che si possa parlare di tattica per giustificare lo stravolgimento di sentimenti che si è vissuto nei 138 secondi che ci hanno fatto perdere per un po’ la ragione e per diversi giorni la voce? No, non si può, ma è il destino ingrato di questa rubrica: provare a dare una forma razionale all’irrazionale significato del gioco del calcio. 

Un tempo a marca Roma
E allora ci proviamo anche stavolta, districandoci per quanto è possibile tra tutti gli aspetti meno razionali, provando a non considerare quelle fondamentali connessioni mentali che agiscono come endorfine tra il pubblico e la squadra che attacca ma anche, in senso negativo, tra il pubblico e la squadra chedovrebbe difendersi, ma all’improvviso non ci riesce più. Analizziamo la partita partendo dal primo tempo, con la Roma in controllo del gioco e del pallone, capace di costruire cinque nette occasioni da gol (il tiro a botta sicura di Dybala con la deviazione di mano di Baschirotto, il rigore di Lukaku, il tiro di El Shaarawy alzato sopra la traversa da un colpo d’anca di Pongracic, il miracolo di Falcone sul destro a giro di Aouar e la fantastica prodezza di Dybala col sombrero su Kaba e il tiro al volo di un soffio fuori).

352 apparentemente difensivo per la Roma, 433 apparentemente offensivo per il Lecce, a conferma del fatto che i sistemi di gioco da soli non significano niente, ma quel che conta è l’atteggiamento che la squadra poi sul campo assume. Mourinho voleva una gara d’attacco, infatti è andato a prendere il play Ramadani con Aouar, alzato a livello di Dybala sulla trequarti campo, mentre Cristante e Bove dovevano occuparsi delle altre due mezzeali, con i quinti alti sui terzini e Dybala e Lukaku a premere sui due centrali, in una serie non sempre riuscita di pressioni estreme che non sono proprio caratteristiche nella Roma. Solo nel finale di tempo il Lecce ha messo il naso oltre la propria metà campo approfittando però, sostanzialmente, del momento di difficoltà della Roma successivo all’infortunio che ha tenuto in bilico Dybala per un po’. 

La perduta razionalità
All’inizio del secondo tempo, e con Dybala a stringere i denti con l’antidolorifico, Mou ha disegnato una Roma ancora più estrema, con quattro difensori (fuori Mancini, in difficoltà con Banda nei ripieghi senza rete e con gli esterni sempre alti), e con Azmoun con Belotti per un poker di attaccanti senza troppi compiti difensivi. Nell’idea del tecnico Dybala avrebbe dovuto giocare largo a destra, Azmoun largo a sinistra, con Belotti a fianco di Lukaku, ma di fatto sugli esterni sono finiti i due terzini (Kristensen, subentrato a Karsdorp, e Zalewski), a difendere sono rimasti solo i due centrali, non a caso tra i migliori in campo (Llorente e un finalmente centrato Ndicka, non impeccabili solo sul gol). Lì la Roma ha rischiato tutto. Questo il quadro tattico che ha naturalmente portato la Roma a buttare avanti palloni in maniera un po’ confusionaria e il Lecce ad interpretare la gara in maniera assai più razionale, col compito facilitato dalla dinamica degli uomini in campo e dalla perduta razionalità della Roma.

Si potrebbe anche sostenere che D’Aversa ci abbia messo del suo, ordinando la difesa a tre e togliendo i suoi velocisti più offensivi, ma non ce la sentiamo di buttare la croce addosso al tecnico leccese anche se ad osservare lo sviluppo delle azioni da gol assume un’evidenza quasi plastica la confusione che a un certo punto si è ingenerata tra i difensori salentini. Sul gol dell’1-1, ad esempio, i tre centrali erano schierati in linea a controllare i due centravanti, ma Azmoun è sfilato alle spalle dello sprovveduto Ramadani. E nel secondo gol la progressione di Dybala è stata seguita da mezza squadra mentre su un diverso piano Lukaku invece di avere doppia o tripla marcatura è stato lasciato al povero Touba che ha avuto anche la sventura di tenere in gioco di pochissimo la posizione di Romelu e poi di sbilanciarsi in un tentativo di anticipo favorendo di fatto la spallata con cui il belga si è liberato di lui. 

Quanto sarebbe stato ingiusto
Ha funzionato dunque l’all-in di Mourinho, non ha funzionato il pragmatismo di D’Aversa, ma nessuno tragga lezioni definitive da ciò che il calcio regala con la sua irrazionalità. L’unica, forse, esperienza da portare a casa riguarda semmai la sostanziale ingiustizia del processo a cui sarebbe andato incontro Mourinho e magari per l’incoronazione che ne sarebbe derivata per D’Aversa. In fondo, come dimostrano anche gli expected goal, la Roma ha meritato di vincere la partita ma il calcio è quella cosa strana per cui non conta quanto fai per portare a casa un risultato, ma solo la mira che hai quando tiri in porta.

Questo è il motivo per cui i più pragmatici dei tecnici continuano a ritenere non sempre utile lo sforzo estetico che si fa per raggiungere il risultato, convinti come sono che a inseguire soltanto la bellezza si perda di vista la sostanza dell’obiettivo. Ci sono teorie che sembrano fatte apposta per confermare in maniera scientifica questa opinione, ce ne sono di altrettanto solide  per smentirla. Oggi, almeno qui, non ci sembra utile portare argomenti a sostegno di una o dell’altra. Oggi ci interessa solo celebrare la grandezza di un allenatore che ancora una volta sta risalendo la corrente dello scetticismo che inevitabilmente genera baciando e abbracciando i suoi ragazzi in un afflato di amore assoluto che non tutti riescono a comprendere nella sua inebriante essenza. Ma voi, se volete, chiamatela tattica.

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