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per la roma

Tifare è non saper fare altrimenti

Perché non si smette nonostante i tormenti, al di là di qualsiasi risultato. E non si dice “non tifo più calcio” perché non è calcio

Il “messaggio” del piccolo Samuele, con tutta l’insoddisfazione per il risultato con la Juve. Il bambino il giorno dopo, però, è voluto uscire di casa con lo zaino della Roma

Il “messaggio” del piccolo Samuele, con tutta l’insoddisfazione per il risultato con la Juve. Il bambino il giorno dopo, però, è voluto uscire di casa con lo zaino della Roma

14 Gennaio 2022 - 12:23

Certe volte ci penso. Alle notti girandomi nel letto, alla tensione durante i novanta minuti, le delusioni, i ritorni anticipati dalle vacanze, i soldi spesi per i biglietti, le ricorrenze saltate e tutte quelle altre situazioni, e circostanze, per le quali essere tifosi significa galleggiare sul filo delle nevrosi e convivere con una forte tensione che, una volta tornato a casa, inevitabilmente ricadrà anche sulla famiglia.

Sì, ci penso. Mentre, tornando dallo stadio stravolto per qualche sconfitta, mi ripeto cento volte che "Devo iniziare a viverla di meno". Quando mi sveglio – la mattina successiva – già stanco, quando sento mia figlia, di sette anni, dire alla madre: «Ahio, la Roma ha perso: non diciamo nulla a papà». Penso che è un pallone, un pallone preso a pedate. C'avete mai riflettuto su questa cosa? Piede, palla: sbam! E, allora, qualche domanda me la faccio ma – ogni volta, tutte le volte – mi do sempre la stessa risposta: il calcio non c'entra nulla. Sì, lo so… sembra una provocazione. E, invece, niente di più vero: guardo sempre meno partite – il derby della Lanterna è una di queste eccezioni – che non coinvolgano la Roma e, anche quando capita, nove volte su dieci la squadra della Capitale c'entra ugualmente per qualche incastro di risultati e perciò di classifica.

Da ragazzino, mi pare ieri, facevo sempre fatica a prendere sonno la sera prima di una partita che sarei andato a vedere all'Olimpico: quell'attesa ha un nome, si chiama felicità. L'ideale del "Sabato del villaggio". Poi, chissà, quella partita la perdevamo pure eh… ma a quell'età tutto è per sempre e per sempre, la Roma, c'è rimasta per davvero. Per questo, seppur mandandogli un bacio, se torno con la mente a quell'età non riesco proprio a mettermi nei panni di quel bambino che – nei giorni scorsi – dopo la delusione per la sconfitta contro la Juventus ha scritto quel biglietto, poi diventato virale, in cui, in sostanza, diceva: "Non seguirò più il calcio". Tutto torna, infatti: il calcio non c'entra.

Anche perché, declinata in quel modo, la Roma sarebbe come un'opera lirica: ti piace, batti le mani. Non ti piace, rumoreggi. Come uno sceneggiatore cinematografico: apprezzi i suoi film, vai al cinema. Non ti interessano, non ci vai. È questa la demarcazione tra interesse e sentimento, hobby ed esigenza, simpatizzanti e… tifosi. Per questo, quando comincio a farmi domande e a fare quelle considerazioni – lecite – più razionali smetto un attimo dopo. Perché il mio rapporto con la Roma di razionale non c'ha proprio nulla. E pure se dopo ogni sconfitta mi sento sempre peggio già so che, il giorno dopo, l'amerò un pezzetto di più. Ancora di più.

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