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Il calcio è del popolo. Oppure non è

L'editoriale di Tonino Cagnucci: "Il pallone ha le sue regole, la sua tradizione, e una più grande, che le racchiude tutte: il calcio è del popolo"

21 Marzo 2018 - 07:30

Se stare contro il prezzo di un biglietto a 89 euro per un posto al centesimo anello con una rete davanti agli occhi significa essere retorici, allora vogliamo essere maestri della retorica, ambire alla cattedra del populismo. Però qui mi sa che la retorica peggiore è proprio quella dell'anti-retorica, dello spritzsimo intellettuale a tutti i costi alla ricerca di angoli visuali iper originali possibilmente graffianti e acidi, buoni soltanto per rompere le palle dissacrando verità invece certificate, urgenti e incontrovertibili. Perché è persino scienza non accettare un biglietto a 89 euro per un settore ospiti o un Distinto di casa a 60 euro. Per gli assetati di gogna, ribelli da Standa, modello "ma sta cosa scrivetela anche alla Roma", leggessero la riga prima oppure il giornale di tre giorni o di sei mesi fa, o quasi una copia a caso in questi sei mesi, perché leggerebbero continuamente "cose scritte alla Roma". Non facciamo altro. Non faremmo altro. Non faremo altro. Sempre dalla stessa parte ci troverete, quella dei tifosi. E basta.

Il manifesto programmatico da queste parti è chiaro: il calcio è e deve restare uno sport popolare. Antico com'è antico il mondo, verrebbe da dire facendo eco all'uomo che più di chiunque altro ha incarnato l'emozione e l'esempio di come vivere il calcio e essere romanista. Antico come è antico il mondo, è il cuore. Non c'è nessuna smania di progressismo, personalmente rimpiango anche la possibilità di prendere con un retropassaggio il pallone con le mani da parte del portiere, ma non è sterile "nostalgismo", è una cosa sensata.

Il pallone ha le sue regole, la sua tradizione, e una più grande, che le racchiude tutte: il calcio è del popolo. E se è vero che nella vita civile ai tempi dei social la nozione, il concetto eccetera eccetera di popolo è meno attuale di un Tirannosauro, nel calcio il popolo c'è e non può non esserci. O il Calcio è del popolo o non sarà. E a noi piacciono i sentimenti, anche quelli che stanno dentro un che sarà sarà. Niente di particolarmente originale, lo scriveva più di quarant'anni fa Pasolini ("il calcio è l'ultima rappresentazione sacra possibile") che s'era innamorato delle periferie e di questo gioco perché lì ci trovava una speranza di autenticità, e quindi di passione, quindi di impegno, di umanità.

Il calcio coi posti solo a sedere, il calcio degli applausi a comando, il calcio del telecomando, del Ministero della Giusta Maniera che regola se, come e quando puoi andare a vedere una partita di pallone, e che ti chiede l'autorizzazione per dire ti amo o anche un santo sanissimo vaffa, chiedendo tramite un fax l'autorizzazione per provare un'emozione, è un prodotto scaduto e scamuffo buono ancora per qualche anno di pagliacciate televisive e di visite turistiche inserite in pacchetti da sceicchi, ma poi a nulla più. Poi non ci faranno niente altro col calcio se continuano a bucargli il pallone.

Il calcio e la Roma non ce la toccate. Il mercato ha le sue regole ed è (purtroppo) normale che ci siano (non possiamo essere luddisti della pedata) ma lasciateci uno spazio, un settore, popolare appunto, lasciateci il sogno della normalità di un pallone da andare a riprendere incastrato sotto la marmitta. Quello non costa niente. Non farei mai a cambio con il grasso sulle mani sporcate per un Super Santos recuperato allungandosi senza vedere, con un salmone da degustare su una terrazza affaccio tribuna Champions mille stelle. Al limite pagherei per non avere questo privilegio. Perché alla fine la dialettica è sempre lo stessa: - spritz e + borghetti. Anche perché se li prendevi con 5.000 lire te ne davano tre. Ai tempi in cui non risparmiavi emozioni quando andavi allo stadio.

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