Il giorno più grande
In un Olimpico con centomila bandiere, che sembrava essere in un altrove, la Roma festeggia il tricolore atteso 41 anni e conquistato a Genova la settimana prima. Col Toro è 3-1

Era già successo tutto l’8 maggio – la Roma aveva vinto lo Scudetto dopo 41 anni -cos’altro sarebbe potuto capitare?
Non finisce mica il cielo dopo Genova, e quello sopra Roma-Torino è una bandiera. Ce n’erano, come non ce n’erano mai state di bandiere quel giorno allo stadio. Eravamo tutti ragazzini, anche i più anziani: è come se avessero abbonato a qualsiasi romanista quarantuno anni di vita. Facevamo non enghé, ma olè da una settimana, eravamo appena nati campioni. Anche il Papa… festeggerà la Roma: «Mi congratulo con i campioni della Roma che non vedo l’ora di accogliere», sono parole di Woityła, non Leone XIV (che probabilmente stava da quelle parti).
Vedo la Santità del Cuppolone e la maestà del Colosseo sdraiate vicino al Circo Massimo, che contiene trecentomila persone per il concerto da “Grazie Roma” di Antonello Venditti. Grazie Roma...
La sintesi è nel volantino che gli Ultrà della Roma avevano fatto e distribuito prima della partita: «RINGRAZIAMO I CAMPIONI per la grande gioia che ci hanno regalato NON INVADENDO IL CAMPO. Abbracciamoli anche a nome della città. Tutta Italia ci guarda». Gli Ultrà erano la forma perfetta quel giorno. In un mondo perfetto succede questo. Che poi, a ben guardare, anche a Genova nessuno si era permesso di invadere il campo durante la partita, prima che esplodesse una gioia sghemba, irrefrenabile, da trasferta, da momento unico e assoluto. Roma-Torino era stata preparata e organizzata con quella felicità, incanalando quella felicità.
Il presidente Viola dagli altoparlanti parla ai centomila: «Vi ringrazio, vi abbraccio, voi siete la grande forza di questa squadra. Non invadete il campo, non guastate questo sogno cullato per tanti anni».
Nessuno nemmeno lo rigò col pensiero quel sogno. È tutto perfetto, la Roma ha vinto anche quest’ultima con il Torino, 3-1, rigore di Pruzzo, uno in allungo di Falcao, poi Conti dopo un gol di Hernandez a Superchi senza guanti; la Roma è Campione, era come se quello stadio si trovasse in un altrove.
In un posto sospeso e incantato, dai colori della luce, perché più del rosso, è il giallo delle bandiere che si fa vedere. Il cielo sopra Roma-Torino è incantato, al punto che la sera, il servizio della Domenica Sportiva si apre solo con immagini e suoni dal vivo, prima di entrare col commento dopo ben 2 minuti e 21 secondi, tempi geologici per essere televisivi. Le parole, accompagnate dal sottofondo di Grazie Roma, hanno anche queste come la premura di non invadere il campo, basta quello che si vede:
“Alla fine c’era gente che si abbracciava e piangeva di felicità, a proposito l’organizzazione ha funzionato a meraviglia; l’invasione del campo non c’è stata, tutti i centomila dell’Olimpico sono rimasti al loro posto per permettere il giro d’onore alla squadra, accompagnata dal grido campioni-campioni. In un’atmosfera surreale i giocatori giallorossi alla fine della partita hanno ringraziato il pubblico percorrendo anche il giro di campo con la bandiera tricolore”.
In testa c’era (c’è) Agostino Di Bartolomei, che prende a bordo campo non un fiore, ma un vaso pieno di fiori, e lo lancia ai tifosi. Era il troppo che aveva dentro Agostino, era la troppa attesa, la troppa gioia, forse il troppo amore di ogni tifoso della Roma per la Roma, e in particolare per quella Roma.
In quel giro di campo non c’è Nils Liedholm: «Ho preferito lasciare la scena tutta ai miei ragazzi. È stato perfetto così». Uno dei paradossi meglio riusciti del Barone, forse primo artefice di uno Scudetto che ha avuto mille artefici. Una curiosità: la mattina Liedholm era andato al Francesca Gianni per festeggiare la Lodigiani in C2. Non c’era al giro di campo, ma al Francesco Gianni sì. Straordinario. Unico. Indimenticabile, come ogni cosa quel giorno. Si trova il tempo anche per questo (pagina 2 del «Corriere dello Sport» del 16 maggio 1983): «Arriva anche la notizia della Lazio che perde a Milano: com’è possibile dimenticare? Si alzano centomila braccia per festeggiare».
Per due ore la Roma ha giocato chissà dove. Che poi questo 3-1 che nessuno racconta mai per la splendida inutilità del risultato (quasi la definizione di bellezza secondo Kant) è arrivato con Pruzzo che si fa il segno della croce prima di tirare il rigore che non voleva tirare. Ma perché, Bomber? Che cosa c’è da temere? Perché hai paura di sbagliare? Qui c’è solo da festeggiare. È proprio questa la risposta: Roberto Pruzzo non vuole rischiare di graffiare quest’opera d’arte, non vuole nemmeno una macchiolina piccola piccola in questo giorno da incorniciare.
E poi, perché lui, lui che è Falcao – Falcao solo, Falcao e basta – quando segna il 2-0 esulta sotto la Sud andando incontro al suo Brasile come dopo il gol con l’Avellino? Forse era il suo pegno d’amore, il suo punto d’onore. Aveva detto che avrebbe portato lo Scudetto a Roma in tre anni e quella era una liberazione: l’aveva fatto. Era stato di parola, ma ora non aveva le parole: «Quando sono arrivato a Roma un giornalista in conferenza stampa mi ha detto che era impossibile vincere uno scudetto a Roma, io gli risposi che era impossibile non vincere uno scudetto in una città come Roma».
Sotto al cielo di Roma-Torino l’impossibile e il possibile diventano concetti relativi: quel giorno in Curva Sud può ritornare lo striscione del Commando Ultrà Curva Sud dopo tanto, troppo tempo. E grazie a Gilberto Viti, davanti a quello striscione, quel giorno, abbiamo rivisto Francesco Rocca. «Campione! Campione! Campione!», gli cantavano. Campione di tutto, Francesco Rocca.
E poi l’ingresso di Paolo Giovannelli, l’eroe di un derby, talento infortunato e sfortunato che però adesso si prende i minuti della gloria; in tribuna Pertini che fa tre con le dita, in tribuna c’era anche un tifoso non vedente, Bartolomeo Cossu, pensionato delle telefonie dello Stato. In curva il primo a entrare alle 9:53 di una partita che sarebbe iniziata alle 16:00 era stato un ragazzo di 17 anni, Claudio Fiocchetti. «Vanno correndo con la bandiera, piano, più piano: perché quel giro non finisca mai. Ci saranno altri giorni, altri trionfi; ma nessuno avrà il sapore di questo: il sottile tormento di un’attesa lunga quasi mezzo secolo», scriverà il giorno dopo Giorgio Tosatti sul «Corsport». E scriverà bene. In quel giorno, in un’atmosfera surreale in cui i giocatori giallorossi alla fine della partita hanno ringraziato il pubblico percorrendo anche il giro di campo con la bandiera tricolore, in testa hanno Agostino Di Bartolomei, che lancia quel vaso pieno di fiori. Molti di noi stanno ancora cercando di raccoglierne i cocci.
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