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L'inchiesta: Il Romanista fra voi. I nuovi poveri: «Questa tenda è la mia casa»

All’interno della tendopoli di piazza Santi Apostoli Claudio, 59 anni, e Angela, 48, ci raccontano la loro storia: «Perdere tutto è un attimo». Basta un inciampo

Daniele Nalbone
23 Dicembre 2017 - 09:47

Claudio, 59 anni, ha perso casa quattro anni fa. Da allora è iniziata la sua "odissea" in cerca di un lavoro e di un posto dove potersi sistemare stabilmente. O quasi. Il suo racconto è simile a molti altri.

La vita di Claudio

Fino a qualche anno fa, ci dice, «Guadagnavo anche bene. Diciamo che sono un libero professionista. Un consulente aziendale». Poi la malattia dei suoi genitori: «Sono tornato a Roma - zona Torrevecchia - per occuparmi dei miei genitori. E per assisterli il lavoro è rimasto indietro. Diciamo che sono stato penalizzato da una situazione triste e negativa. Quando poi sono morti, a distanza di quattro mesi, prima mamma e poi papà, ho perso anche la casa. L'affitto - prosegue Claudio - lo pagavamo con la pensione di mio padre e con qualche risparmio che avevo messo da parte».

Da allora, in sintesi, è iniziata la sua ricerca spasmodica: porte in faccia, occupazioni sporadiche, vita sul filo, fino alle occupazioni a via Quintavalle, quartiere Cinecittà. Poi, ad agosto, lo sgombero: «Ora siamo qui da ormai cinque mesi. Il porticato della chiesa dei Santi Apostoli è casa nostra, questa tenda che vedi è la mia casa».

Nella sua vita, dice, ha girato mezzo mondo. E si definisce «un esperto in scenari politici internazionali. Praticamente dico alle aziende che vogliono investire all'estero, ora soprattutto in Africa, come muoversi in quei Paesi». Ci parla di guerriglieri e ribelli, di tribù e governi corrotti. Ora collabora con una società irlandese. Ma «è impossibile guadagnare abbastanza - spiega sempre il sessantenne Claudio - lavorando un paio di ore al giorno, anzi, a notte, per potersi permettere una casa». Lui ora lascia il pc in carica per tutto il giorno, attaccato a una presa multipla che esce dal portone. «E ogni sera, quando tutti vanno in tenda a dormire, lo accendo e mi metto a lavorare. Ma quando la chiesa chiude, addio corrente. Così ho poco tempo. Troppo poco».

Speranze per il futuro? «Io per il Comune di Roma non esisto. Secondo loro - risponde Claudio tra l'amareggiato e l'arrabbiato - gli unici ad avere qualche diritto sono le famiglie fragili. Donne con bambini, per capirci. E per loro l'unica alternativa sarebbero le case famiglia». Se la prende anche con la Prefettura, a poche decine di metri da qui, che potrebbe, a suo dire, intervenire e dare qualche soluzione, e che invece non farebbe proprio nulla. La voce di Claudio è stranamente calma. Zuccotto in testa. Due maglioni sotto al piumino. Il freddo che non passa mai. Tutte le sue cose sono in una tenda. «Ormai non ha nemmeno più senso strillare o arrabbiarsi. Andiamo avanti con forza e dignità. Tanta determinazione. Ma di certo non posso mettermi a urlare con te che sei un giornalista. E poi, a cosa servirebbe?».

La vita di Angela

Scambiare due parole con Angela? Certo, ma attenzione, ha i nervi scoperti, 48 anni, single, e due figli adolescenti, e non fa sconti a nessuno: «Se pensano che io porti i miei figli a vivere in un Istituto dove devi chiedere permesso per entrare e uscire, si sbagliano di grosso. Noi abbiamo una dignità. E queste tende ne sono la prova. Preferisco combattere il gelo di queste notti come all'inizio abbiamo lottato contro il caldo torrido». Angela lavorava in un hotel a 4 stelle e faceva di tutto, dalle pulizie al servizio in camera. Poi, quattro anni fa, è arrivata un brutto giorno la Guardia di Finanza: «Sigilli a tutta la struttura. Proprietario in carcere. Noi a casa, senza lavoro». Così inizia un drammatico effetto domino: «Mi lascio con il mio compagno». Pochi mesi e «devo abbandonare casa: non potevo più permettermi di pagare 700 euro al mese d'affitto». Così, dopo un lungo girovagare tra varie occupazioni, finisce a via Quintavalle. «Quella per me era finalmente casa. I miei figli vanno ancora a scuola a Cinecittà. Ogni mattina escono dalle tende e si mettono in viaggio verso l'altra parte di Roma. Inevitabilmente il loro rendimento scolastico ne sta risentendo. Io provo a spiegargli che devono studiare. Ma ora al pomeriggio scende il buio. La corrente elettrica c'è solo finché la chiesa è aperta. Poi pensi solo a mangiare qualcosa di caldo e a infilarti nella tenda». Il più piccolo dorme con lei. «Il più grande invece non ne vuole sapere. Dorme nella tenda piccola, da solo».

«La mia paura più grande? Svegliarmi una mattina e trovarlo assiderato. Quante volte gli dico di venire in tenda con noi. In tre fa più caldo».

La tendopoli certo è brutta ma ora «ho paura di perdere la mia famiglia allargata. Finire sbattuti chissà dove in qualche casa famiglia. O nei container. Noi qui siamo una cosa sola. I miei figli sono i figli di tutti. E io mi sento mamma dei venti bambini delle altre famiglie che vivono sotto questi portici».

Un'immagine? Un segnale positivo di qualunque tipo in questi mesi? «Non voglio intristirti» risponde Claudio, quindi «ti racconto una cosa carina: i turisti. L'altro giorno sono passati due ragazzi canadesi. Si sono fermati più di un'ora a parlare con noi. Poi ci hanno salutato. Sono tornati dopo quindici minuti carichi di sacchetti di McDonald's. Avranno speso almeno cento euro in hamburger e patatine. Non puoi capire lo sguardo dei bambini quando li hanno visti tornare».

Angela è più stanca. Appoggia la scopa contro le pareti del presepe che don Agnello, il parroco, sta allestendo tra le tende. Ci pensa un po'. «Guardati intorno. Ho 49 anni, due figli e dormo in una tenda all'ingresso di una chiesa, davanti alla capanna di Giuseppe e Maria. Ho solo un'immagine in testa, quella maledetta mattina del 10 agosto, quando sono stata svegliata dalle sirene della polizia. E ho perso casa.

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