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L'intervista

Sandro Bonvissuto: "L'amore è la Roma: senza di lei oggi non sarei lo stesso"

Lo scrittore romano, nel romanzo "La gioia fa parecchio rumore", ripercorre la sua infanzia attraverso la passione per il giallorosso: "Siamo dei tifosi unici"

Lo scrittore romano Sandro Bonvissuto (Foto Dino Ignani)

Lo scrittore romano Sandro Bonvissuto (Foto Dino Ignani)

14 Febbraio 2020 - 14:33

«La prima cosa che ho amato, come l'ultima, d'altronde, è la mia squadra di calcio del cuore. Il suo nome è A. S. Roma». Basta arrivare a pagina 7 di "La gioia fa parecchio rumore", romanzo di Sandro Bonvissuto edito da Einaudi, per capire che è un libro che parla di noi. Anzi, di noantri, pronome inclusivo e distintivo al tempo stesso, che ci fa famiglia e al tempo stesso ci rende diversi, speciali. Romanisti, appunto. Un libro che - Bonvissuto ci tiene a precisarlo - «parla d'amore, di un amore unico e folle» nei confronti del giallorosso.

Ma è anche un affresco su una Roma città e su un'Italia che non ci sono più, viste attraverso gli occhi di un bambino che tra la fine degli Anni 70 e i primi 80 diventa grande insieme alla Roma. Un'epopea in cui riaffiorano la radio Grundig attraverso cui «si vedeva la partita» e le figurine Panini scambiate negli androni dei palazzi, lo spirito popolare della Capitale (ormai sparito) e di un periodo storico in cui tutti stavano bene, perché non c'era bisogno di essere ricchi per stare bene. Bonvissuto, romano cresciuto tra Cinecittà e Portuense, 50 anni il prossimo 1 giugno, è laureato in Filosofia e lavora in una trattoria come cameriere. In questo suo romanzo descrive la sua "educazione sentimentale" giallorossa, in un romanzo di formazione costellato di gioie e dolori.

È un libro sull'amore, quindi.
«Sì, sull'amore per la Roma e per Roma: amo immensamente questa città e non saprei vedermi altrove. Ci sto benissimo, quando esco mi sento a disagio. Ogni tanto, quando qualcuno mi dice che vorrebbe andarsene, gli dico: "Ma sì, vattene a Helsinki, così io trovo meno traffico!"».

E la Roma?
«(sospira) Io so' malato».

In che senso?
«Nel senso che non mi sono più ripreso, né lo farò mai. Due eventi mi hanno segnato in maniera indelebile, nella mia vita».

E cioè?
«Uno è l'arrivo del Messia: Paulo Roberto Falcao. Andammo a prenderlo all'aeroporto, quel 10 d'agosto, con mio padre e mio zio. Mia madre ci chiese: "Dove andate?". "All'aeroporto", rispondemmo noi. "E a fa' che?", volle sapere. "Ma no, mica partiamo! Andiamo a vedere l'arrivo di Falcao". E una volta arrivati...».

Cosa successe?
«Ero un bambino, pensavo di essere il primo, se non l'unico. Invece ero l'ultimo: c'erano migliaia di persone. C'era chi giocava a racchettoni, chi tagliava il cocomero... L'aeroporto neanche si vedeva. Erano tutti lì per Falcao, capisci?».

Sì, una roba incredibile.
«Vedendo questa gente, mi sentii... risolto, ecco. Pensai: "Io vojo esse' come loro. Io sarò sempre uno di loro, perché questo è il mio posto nel mondo". Ecco, questa è la Roma. E c'era un sole...! Mi resi conto che non avrebbe piovuto mai più».

E l'altro evento che ti ha segnato?
«30 maggio 1984, Roma-Liverpool».

Eri allo stadio?
«E certo».

E...?
«E niente. Sono stato offeso da quella Coppa dei Campioni. Offeso in senso fisico: lesionato. Non mi sono più ripreso».

Davvero?
«Ma stai a scherza'? So' tornato a casa a piedi, ormai era il 31. Mi sono chiuso in camera e ho cominciato a scrivere. Come Leopardi, praticamente. Io sono un reduce, come Rambo. E questo vale per tutti quelli della mia generazione. Se ci sediamo a tavolino, ti dimostro che qualunque problema della mia vita è riconducibile a quella sera: tutti, te l'assicuro».

Parliamo dei luoghi del cuore: la Curva Sud...
«In quegli anni era la più grande Curva d'Europa. Penso a Roma-Bayern Monaco di Coppa delle Coppe...».

Il coro "che sarà, sarà...".
«Mi alzo, mi guardo intorno e mi dico: "ma sta a succede' davero?". Avresti dovuto vedere le facce dei giocatori in campo: una roba mai vista. Persino l'allenatore del Bayern ammise di non aver mai assistito a uno spettacolo del genere».

Altri tempi...
«Sì, anche se devo dire che di recente, con gli addii di Totti e De Rossi, si è avuta un'ulteriore prova della nostra unicità: testimonianze d'amore indescrivibili».

Vai allo stadio?
«Sì, con mio figlio, ma non sempre: gli orari spesso improponibili e i prezzi alti rendono le cose difficili, ma siamo abbonati».

Nel tuo libro, a tratti, la Roma e la famiglia si mescolano, come se fossero la stessa cosa.
«Ma infatti è così. O forse lo era: non ci mancava niente, pensavamo solo alla Roma anche perché non avevamo altre cose di cui preoccuparci. Le mamme tornavano dal supermercato con i carrelli pieni, andavi dal panettiere e potevi dirgli: "Mi da' una pagnotta, poi passa papà e la paga?". E sai cosa? Te la godevi proprio perché sapevi che mangiavano anche gli altri, anche nelle borgate più umili».

Sabato c'è l'Atalanta, la stessa squadra che, nel 1979, ha costituito il "rodaggio del tuo cuore"...
«Rischiavamo la B, ma pareggiammo 2-2 e ci salvammo. Vedi, magari noi abbiamo vinto poco, ma eravamo e siamo unici: che vuoi di più dalla vita?». Niente, infatti.

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