Juventus e Roma, gli opposti che non si attraggono
Due squadre divise da visioni contrapposte. La rivalità già nella genesi, poi decenni di lotte e polemiche
(GETTY IMAGES)
Diciamo la verità: quell’acredine quasi congenita nella sfida fra Juventus e Roma si è un po’ affievolita. O meglio, esiste sempre una cordiale (o quasi) antipatia, ma è più figlia della storia che dell’attualità. Ben diversa dall’avversione quotidiana e dagli scontri frontali degli Anni 80 o di inizio millennio, almeno fino a Calciopoli, con la coda differita firmata Rocchi (arbitro).
Le prospettive si evolvono, gli avversari cambiano, i centri di potere si spostano. Oggi ci si stupisce un po’ meno quando su questioni di politica sportiva i due club si trovano dalla stessa parte della barricata, perché soprattutto sulla sponda torinese negli ultimi tempi i rapporti con le alte sfere hanno preso una piega diversa da quella atavica. Eppure una sacca di resistenza a un possibile nuovo asse è sempre rimasta viva. Gli emisferi bianconero e giallorosso continuano a rappresentare idealmente due poli opposti di tutto lo scibile calcistico, come da un secolo a questa parte. Governo e opposizione. Sistema e popolo. Bianco&nero e colore.
L’avversione è dura a morire quando si sedimenta in tanti decenni e viene alimentata da torti in serie, vendette sportive, sfide infuocate, visioni del mondo contrapposte. E fin dal suo atto costitutivo, la Roma nasce in antitesi allo strapotere degli squadroni del Nord, padroni del calcio già in epoca pionieristica. Fedele alla propria genesi, la squadra della Capitale contende campionati alla Juventus dai primordi. Negli Anni 30 i bianconeri formano l’ossatura della Nazionale che in 4 anni trionfa in due Mondiali e un’Olimpiade. Ma la Roma è ben rappresentata, nonostante l’ostracismo del ct Pozzo nei confronti di Bernardini. Due costanti anche nei decenni a seguire. Lo Scudetto finisce per 5 volte di seguito a Torino (record superato soltanto nel ciclo inaugurato da Conte e proseguito da Allegri), eppure Ferraris IV e compagni sono sempre o quasi ai vertici, a tallonare, infastidire e a volte umiliare i pluricampioni. È il caso del celebre 5-0 inflitto alla Juve, che ispira l’omonimo film («Cinque a zero») di Bonnard.
L’epopea d’oro culminata nel primo tricolore a Sud del Po del 1942 si esaurisce con la guerra e mentre la Fiat trova risorse (anche sociali) importanti negli investimenti calcistici, per la Roma arriva un lungo periodo di ristrettezze e scarse ambizioni. I due mondi appaiono lontanissimi e la rivalità sembra sopita. Almeno fino al 1970, quando il presidente Marchini dà vita a un triplo scambio con la Vecchia Signora che depaupera la squadra arrivata a un passo dalla finale di Coppa delle Coppe e lascia alla Juve i tre gioielli Spinosi, Capello e Landini. Il talento dell’ultimo in breve evapora, ma gli altri due contribuiscono all’ennesimo ciclo vincente di casa Agnelli. Il duello sul mercato si rinnova a fine decennio, ma per una volta è la Roma a spuntarla e assicurarsi un centravanti che farà le sue fortune: Roberto Pruzzo. Ultimo regalo di Anzalone.
Con l’era Viola l’antagonismo si riattizza. Il gol annullato a Turone e il conseguente Scudetto indirizzato verso Torino inaugura una sfilza di episodi contestati e forieri di polemiche vivacissime. La Roma riesce a prendersi il titolo nel 1983, ma fino al 1986 la lotta per il vertice resta quasi sempre un affare a due. Lo “scippo” sul mercato di Boniek - grazie anche agli interventi Fiat in Polonia - estende i contrasti al mercato: Zibì arriverà alla Roma con tre anni di ritardo. Nel 1990 la storia si ripete con Haessler, che va prima a Torino per poi prendere la direzione giusta, ma in cambio del doloroso sacrificio di Peruzzi. Il duopolio Sensi-Mezzaroma porta come ds Moggi, che però entro breve lascia Trigoria proprio per la Juventus, dove dirotta Ferrara e Paulo Sousa, trattati a lungo per conto dei giallorossi.
L’ex ferroviere acquista sempre più potere: la Roma è fra le vittime della sua tracotanza, in campo e sul mercato, eppure riesce a prendersi il terzo tricolore nel 2001 con Capello in panchina. Tre anni dopo però il tecnico dà il secondo addio alla Capitale, con uguale destinazione del ’70. Moggi sfrutta le debolezze finanziarie dei Sensi, anticipandoli su Ibrahimovic e portandosi a casa anche Emerson e Zebina. All’ombra del Colosseo c’è voglia di rivalsa, ma la dirigenza bianconera ha strutturato una rete di potere poco scalfibile. Almeno fino a quando Calciopoli non ristabilisce un certo grado di giustizia. Qualche anno dopo Andrea Agnelli inaugura un nuovo ciclo vincente. A contendere il titolo ci prova la Roma di Garcia, che però si scontra con nuovi arbitraggi ostili, su tutti quello di Rocchi a Torino nello scontro diretto del 2014-15. Poi i giallorossi diventano protagonisti in Europa, i bianconeri comprimari in Italia. Perfino la casa madre Fiat si sfila, o quantomeno si defila. E sul versante “politico” ci si avvicina. Ma sul campo gli attriti si rinfocolano col varo della “regola dello svantaggio” marchiata Orsato. Alla fine poco cambia rispetto a dieci, venti, quarant’anni o a un secolo fa. E non è detto che sia un male.
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