Ecco chi era Falcao
Per illustrare il 5 guardate CSKA-Roma ‘83: Falcao salva sulla linea, rilancia, riprende il pallone, lancia, segna. E la palla resta sospesa sulla rete come stupita. Sta ancora lì

Stiamo per cercare di definire Falcao. Ci vuole una sigla, quella dell’Eurovisione, ricordo bene il momento del collegamento a casa di Amedeo e Anna, quarto piano a Largo degli Osci perché avevano la televisione a colori grande, il momento del “nananananannana...” della sigla dell’Eurovisione. Il calcio credo sia stato questo, poco di più a parte la gente. Roma in maglia bianca, lo stadio di Sofia sembra cupo come quegli anni sovietici, almeno a vederli da qui, almeno secondo i racconti con le categorie occidentali. La sensazione di trasferta e per giunta internazionale è netta, ma stavolta la Roma la posso vedere in diretta. La posso aiutare più facilmente. È il primo nostro ottavo di finale di Coppa dei Campioni. Siamo in maglia bianca. Iniziamo ma sembrano iniziare solo loro; io ricordo qualcosa come un tiro da lontano respinto dalla faccia di Tancredi, mi documento e il tiro è stato di Tanev mentre Miadanov manda non si sa come alto sulla ribattuta. Tancredi ha un livido al collo, io ho le orecchie rosse per l’emozione. In televisione per la Roma in Coppa dei Campioni mi prendeva così. Amedeo si fa un cognac. Io a nemmeno 12 anni non potevo, ma era come se bevessi con lui. Il Cska Sofia sembrava veramente quello che era: il Club Sportivo Centrale dell’Esercito, la Roma col suo bianco, coi suoi tocchi, col suo Brasile, col suo sole, resisteva. Eravamo una trincea primaverile in un autunno bulgaro. Quello che ho visto poco dopo sulla linea di porta della Roma è proprio qualcosa come un susseguirsi delle stagioni, una lotta degli elementi, la vittoria dell’Uomo sulla Natura e al tempo stesso il dubbio che quell’uomo fosse umano.
Paolo Roberto Falcao prima salva sulla linea con un colpo di testa, sennò era gol, stava lì al momento e al posto giusto, al secondo e al centimetro giusto e manda la palla lontano, poi aspetta, guarda dove va il pallone fino a scattare all’improvviso quando meno te l’aspetti e questo è di difficile descrizione perché è difficile pensarlo: Falcao non si limita, non si accontenta di salvare un gol sulla linea di porta, allontanare il pallone, rifiatare, no, si mette a rincorrere il pallone oltre l’area di rigore dove l’aveva mandato lui. All’improvviso. Da così vicino vicino a così lontano. I movimenti sono due in uno e spesso già al primo si grida all’ “incredibile”. Ma incredibile è un’altra cosa. Il terzo e il quarto movimento, il settimo senso, perché Falcao quel pallone respinto e allontano lo prende, lo ruba a uno di loro: un uomo vestito di bianco con la fronte alta e i riccioli biondi toglie un pallone senza sporcarsi a un militare: credo che sia un inno per tutti i manifestanti del mondo. Un white block. Eppure ancora non è niente. Siamo oltre il 3D. Siamo al futuro visto solo da lui, alla quarta dimensione, al quarto potere dell’arte: dopo aver preso la palla che aveva respinto sulla linea, che aveva strappato a un militare, la dà via col tacco rilanciando così l’azione della Roma in Bulgaria.
Ha difeso e ha attaccato, ha salvato e rilanciato, ha respinto e contrastato, ha corso e si è fermato, dalla testa al tacco: l’anatomia del gesto, il segno della croce di un’azione. Amen. Ci fosse ancora l’amatissimo CB che adorava PRF direbbe la negazione stessa dell’azione in un gesto, soltanto che Paulo Roberto Falcao l’ha negata in quattro movimenti. Lo 0-0 non dà il senso. Finisce il primo tempo e io posso finalmente tornare a respirare. Anna va in cucina e mi porta un bicchiere d’acqua: speravo nel cognac, ma posso ancora sperare nella vita perché io ho in squadra Falcao. Io a 11 anni appena compiuti ero tifoso della Roma campione che giocava in Coppa Campioni con Falcao. Quando la vita va male me lo devo ricordare. Come in quel momento, come in quel secondo tempo. Dalla bestemmia ai ringraziamenti al cielo, da Pruzzo che perde l’attimo solo davanti a Velinov dopo un suggerimento di Cerezo al gooool di Falcao arrivato proprio grazie all’appoggio del Bomber. Falcao stava accorrendo. Falcao accorreva che è un verbo che può star bene solo a lui, al Divino che scende, che decide di farci vincere, con uno scarabocchio breve, secco e bianco in diagonale, una traiettoria decisa che diventa morbida nel momento in cui il pallone tocca la rete e non scende più. Non tocca terra. Resta in aria, impigliata fra una ringhiera e le rete, a sventolare la gioia della Roma, a far continuare il momento della felicità, a prolungare il gol, a mezz’asta, bandiera ammainata del Cska Sofia città di rosa che rosa non è. Il petalo rimasto appeso alla rete, una sensazione di squisitezza, di deflorazione leggiadra, di amore e di scopata, di carezza proprio quando invece stai vincendo un difficilissimo concorso in banca. Credo che il pallone sia ancora lì impigliato nella rete, in fondo al sacco, sospeso tra il sudore il ricordo. Falcao ha unito i venti quella sera, in difesa e in attacco, ha salvato il gol e l’ha fatto, Falcao ha guidato il vento all’andata e al ritorno. Perché del ritorno più che il gol di Graziani, più che l’arrabbiatura di Dino Viola per un Olimpico con appena 59.691 spettatori paganti, più che dello stesso passaggio ai quarti, più della telefonata di Pertini alle 19.23 a Viola per le congratulazioni, più di Tancredi che dice di aver perso dei chili sullo 0-0, più di qualsiasi altro ricordo, ricordo ancora Falcao che a un certo punto, quasi subito, quasi si fermò in mezzo al campo, alzò la mano e fece un gesto rivolto a tutto il Cska Sofia, come a dire: “venite avanti la partita la dovete fare noi, noi stiamo vincendo”. Come a dire “avanti campioni se lo siete, perché avanti campioni siamo noi ce lo ha detto la Curva Sud”.
La Curva Sud quella sera diceva alla squadra un’altra cosa su un altro striscione, stavolta in giallo su sfondo rosso: “Forza grande Roma la Sud ti vuole campione”. Falcao facendo quel gesto verso i bulgari indicava loro contemporaneamente quella parte di stadio che aveva cacciato via da questo paradiso gli angeli. Le rose di Sofia rimasero senza gol e senza spine e Paulo Roberto Falcao verso la fine fece un dribbling toccando la palla leggermente in alto verso destra dribblando un bulgaro, poi la stessa cosa ma a sinistra dribblando un altro bulgaro e poi un palleggio non per se stesso, come sono tutti i palleggi (onanistici, narcisistici, barocchi) ma per gli altri, per gli operai, per le famiglie, per la Roma: uno, due, tre tocchi fino a alzare il pallone a quell’altezza giusta per servirlo a sinistra quasi dall’altra parte del campo dove Bruno Conti in corsa pensava già a un altro mondo. Al di là del muro. Dove c’era ancora da andare a prendere il pallone di Falcao.
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