AS Roma

8 maggio 1983, la fine della prigionia

La cavalcata verso lo Scudetto 1982-83 al centro del volume di Lorenzo Latini. Dal ritiro estivo al Circo Massimo, passando per quel giorno a Marassi, dove il sogno diventa realtà

PUBBLICATO DA Lorenzo Latini
06 Luglio 2025 - 07:30

Riportiamo di seguito un estratto  del libro “Roma Scudetto 1982-83 - In porto col vessillo”, del nostro Lorenzo Latini. Il libro, edito da Garrincha Edizioni, è uscito il 24 giugno ed è disponibile in tutte le librerie e gli store online al prezzo di 10 euro.

Alle 17.40 di domenica 8 maggio, a Marassi, centinaia di piedi calpestano la linea di fondocampo, in una sorta di tip-tap dell’impazienza. I tifosi hanno scavalcato le grate che separano gli spalti dal terreno di gioco e ora sono lì, come dei giudici di linea che attendono soltanto il triplice fischio. Qualcuno supera persino la linea bianca, spinto dalla marea dietro di lui, e finisce per entrare in campo. I carabinieri cercano di tenerli a bada, ma è come cercare d’arginare l’oceano con qualche paletto. Sono perlopiù ragazzi, molti hanno i capelli lunghi, indossano giacchetti di pelle e logore scarpe Superga, legate al collo e in vita sciarpe giallorosse: sono angeli in blue jeans, che attendono questo momento da prima ancora che nascessero. La voce di Enrico Ameri scandisce quei secondi in cui ogni cosa è sospesa: «È un momento eccezionale – dice il radiocronista di “Tutto il calcio minuto per minuto” – che non abbiamo mai descritto nel corso di nessuna partita di nessuna conclusione di nessun campionato di Serie A che abbiamo descritto in circa 23 anni di attività di questa trasmissione». 

La gara è ferma sull’1-1, maturato nel primo tempo. Siamo passati in vantaggio col Bomber Pruzzo, ovviamente di testa, la specialità della casa: il cross, perfetto, è di Ago, che pesca Roberto, un re nel gioco aereo; l’incornata alza il pallone e lo fa finire lì dove il portiere genoano Martina non riesce ad arrivare. Già da quel momento sugli spalti e per le strade di Roma è cominciata la festa, perché è evidente a tutti che quello è il gol-Scudetto: niente e nessuno potrà fermarci. Neppure il pareggio rossoblù con Fiorini poco prima dell’intervallo spegne l’entusiasmo delle migliaia di tifosi accorsi in Liguria per essere testimoni della Rivoluzione. Ora attendono lì, a bordocampo: si strattonano i giacchetti l’uno con l’altro per evitare di fare invasione, come in una danza propiziatoria. 

Ma quando l’arbitro, finalmente, finalmente, finalmente fischia tre volte, quella marea non può più essere contenuta e la gioia si riversa sul rettangolo verde di Marassi. Tutti ci corrono incontro, a caccia di una maglietta, un calzoncino, uno scarpino, o anche semplicemente un abbraccio. Liedholm, in panchina, viene sommerso: Geppo, figura storica della Curva Sud, se lo stringe come farebbe un figlio col proprio padre. A quel punto il Barone se lo caricano direttamente sulle spalle, e lo portano in trionfo, mentre noi cerchiamo la fuga negli spogliatoi dello stadio. Lo portano in trionfo perché sanno che senza di lui tutto questo non sarebbe mai stato possibile: perché è vero che questo Scudetto atteso 41 anni è frutto del lavoro e della progettualità del Presidente Viola; è vero che tanti meriti vanno al genio e al talento di Falcao, alle finte e ai dribbling di Bruno Conti e ai gol di Pruzzo e alla costanza di Vierchowod e Nela, all’intelligenza di Prohaska e Ancelotti, ai riflessi felini di Tancredi, alla personalità di Maldera, allo spirito di sacrificio di Iorio, alla guida e al cuore di Di Bartolomei – ma senza il Barone… questa perfetta alchimia non si sarebbe creata. Lui, superstizioso e arguto, profondo conoscitore del calcio e della vita, ironico e signorile, è riuscito a guidare la Rivoluzione, scardinando lo status quo e regalando così a un intero popolo il più rivoluzionario degli elementi: non soltanto la speranza di un futuro felice, ma la felicità hic et nunc, qui e ora. Prendete e godetene tutti, sembra dire Nils, sorridente sulle spalle della sua gente. Trentaquattro anni prima, salutando la sua famiglia in Svezia, aveva detto al padre: «Tranquillo, un anno o due e poi torno». E invece no, in patria non c’è tornato, perché il destino – o il caso, fate voi – aveva in serbo  altri programmi per lui: doveva rimanere per guidare la Rivoluzione e per dare forma e sostanza ai sogni di quegli angeli in blue jeans che ora lo portano in spalla.

Sono le 17.45 e la Roma è appena diventata Campione d’Italia per la seconda volta nella sua storia. 

Facciamo festa grande anche negli spogliatoi: mattatore assoluto Bruno Conti, che stappa una magnum di champagne mentre intona il coro «Canteremo fino alla morte, innalzando i nostri color…». Sebino Nela, sigaretta all’angolo della bocca, se la ride e batte le mani a tempo: nell’intervista a Galeazzi parla di «tanti sacrifici» compiuti per arrivare a questo Scudetto, tutti ripagati; lui, mancino naturale, si è allenato fino allo sfinimento per giocare a destra su richiesta di Liedholm, che dall’altra parte aveva Maldera. Ha passato ore e ore, intere giornate a migliorare il suo destro, e alla fine è risultato il migliore del campionato nel suo ruolo. Agostino, meno “caciarone”, è seduto in un angolo mentre parla con Galeazzi: indossa un accappatoio giallorosso, forse perché non è tipo da mostrarsi alle telecamere a torso nudo; almeno durante l’intervista, il Capitano opta per il decoro, qualità rara nel calcio di oggi. Parla con espressione seria, le sopracciglia che si aggrottano, salvo poi aprirsi in un sorriso divertito quando Conti irrompe come “disturbatore” davanti alla telecamera. Conserva il consueto aplomb anche Dino Viola, che dimostra ancora una volta di avere una mente finissima e una capacità di linguaggio degna di uno scrittore: «Questo successo ci consente di uscire dalla prigionia del sogno». Niente più gabbie o sbarre, adesso: siamo liberi di viverlo, questo sogno, e di godercelo. Perché non esiste gioia più grande che svegliarsi e rendersi conto che quel sogno tanto dolce, finalmente, è realtà.

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