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Malagò: "Sono romanista. Trovo penoso chi nasconde il suo tifo, quello che conta è il rispetto"

L'intervista al presidente del Coni: "Personaggi di caratura mondiale non hanno mai avuto paura a dichiarare la propria fede. L’importante è non essere faziosi"

Tonino Cagnucci e Daniele Lo Monaco
01 Marzo 2019 - 08:36

Entrare nell'ufficio presidenziale del Coni significa immergersi per un po' di tempo, sempre troppo breve, nella fantastica vita gialla e blu di Giovanni Malagò, 60 anni a marzo, ospitalissimo padrone di casa, viveur di ottime maniere, apprezzato gestore dello sport italiano, inesauribile raccontatore di aneddoti e perpetuo distributore di sorrisi, per come risponde agli amici al telefono («Cena fantastica ma ti potevi risparmiare quel blangé, non fanno per te ‘ste cose»), per la suoneria del cellulare che parte di continuo facendo scattare chissà quante volte al giorno l'inno nazionale di Mameli (come fa a non odiarlo, ormai?), per la sua capacità di cambiare timbro vocale di risposta al suo interlocutore (c'è quello formale, quello insolentito, raro, quello guascone, quello cameratesco, quello operativo), per lo spassoso menefreghismo con cui tratta i suoi collaboratori, per i richiami alle sue pazientissime segretarie, per le ripetute offerte a bere qualcosa e per l'obbligo a dargli del tu prima di cominciare l'intervista, non l'unica delle numerose affabulazioni che usa con gli estemporanei interlocutori che lo vengono ad intervistare, chiedendo ogni volta «scusa» o «permesso» per annunciare concetti che non richiederebbero l'una o l'altro, «ma per me l'educazione è tutto». Lascia che si apprezzi il mobilio («Ho arredato queste stanze a mie spese, non reggevo i mobili di prima»), dà una sistemata ai suoi tredici evidenziatori gialli e poi parte con l'intervista, senza mai rinunciare a buttare l'occhio su Sky Tg 24. E comincia, forse inevitabilmente, dall'età.
«Non c'ho più il fisico. Sto per fare 60 anni, ormai la data è vicina: il 13 marzo, come Sebino Nela, Picchio De Sisti, Bruno Conti».

Come James Pallotta.
«Anche Jim, vero».

Romanista doc, si può dire.
«Certo, ci mancherebbe. E leggo tutte le mattine Il Romanista, nella mia mazzetta non manca mai».

Ci lusinghi, ma non saremo cattivi: il tuo rapporto con la Roma com'è?
«Ve lo dico, non è certo un mistero. Anzi. Qui si parla tanto di cultura sportiva, io ne sono un fautore. La cultura sportiva fa crescere il nostro sistema calcistico, se hai cultura rispetti l'avversario, l'arbitro, il commentatore, il giornalista, il tifoso tuo e dell'altra squadra. Io trovo penoso che chi ha cariche pubbliche o magari è diventato popolare che per non rischiare di perdere delle simpatie disconosca la sua squadra del cuore. Ovviamente questo non significa che tu non debba avere ancora più rispetto, in virtù di quella carica, verso dirigenti, tifosi, giocatori delle altre squadre. Personaggi di caratura mondiale non hanno mai avuto paura a dichiarare la propria fede, da Obama a Putin, o Conte e Salvini in Italia. L'importante è non essere faziosi o parziali, altrimenti è un disastro. Io non sono fazioso, questo mi viene riconosciuto da tutti».

Diciamolo, forse dalle parti di Formello non te lo riconoscono tutti.
«Ma no, non è vero».

Il comunicatore seriale Diaconale ti ha attaccato il giorno dopo in cui hai auspicato la presentazione del progetto della Lazio, dicendo che loro il progetto lo hanno già presentato. Anche se non risulta a nessuno.
«Dai, non mi trascinate in queste cose. Sono cose che possono accadere, ma in realtà con loro ho ottimi rapporti, ho un dialogo costante con Claudio Lotito... Vi garantisco che è impossibile trovare una mia dichiarazione in cui io non abbia auspicato l'accoglimento del progetto dello stadio della Roma accanto a una dichiarazione in cui chiedevo di portare avanti anche l'analogo progetto della Lazio».

Quando lo presenteranno, magari.
«Ma io faccio un discorso di politica sportiva, non faccio valutazioni su carichi urbanistici, autorizzazioni, cubature, piani di viabilità, i ponti, ecc. Io dico che non si può andare avanti così. Roma e Lazio devono avere le loro case».

Continua a leggere l'intervista al presidente del Coni su "Il Romanista" di oggi

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