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Roma-Atalanta: quella crepa nel soffitto

Dall’assenza improvvisa di Dybala al rosario dei gol mangiati, a Chiffi. Stoppati in casa in una domenica che aveva addirittura “rivalutato” la sconfitta di Udine

Pellegrini e Zaniolo in Roma-Atalanta

Pellegrini e Zaniolo in Roma-Atalanta (As Roma via Getty Images)

Federico Vecchio
20 Settembre 2022 - 10:00

Attraversando il ponte ed i viali del Foro Italico, con gli inni che si sentivano, via via, più vicini (“Sto tragitto, sentendo gli inni, è uno dei momenti più belli de quanno vieni allo Stadio”), il convincimento che saremmo andati a vincere era crescente, perché la sconfitta ad Udine era (in parte) resa meno pesante da quella appena subita dall’Inter, perché sempre di più si crede in questa squadra (“Nessuno c’ha l’attacco nostro. Forse qualcuna all’estero. Qua, nessuno”), perché l’Atalanta faceva meno paura degli altri anni (“Non so più quelli de na vorta. Zapata e Muriel stanno a pezzi; segnano poco; Musso non è Gollini, che je parava tutto”). 
Poi, una volta dentro, partita quella coreografia, il convincimento diveniva certezza (“Vincemo e basta”).
Come una piccola crepa a margine del soffitto, che non preoccupa ma rovina lo sguardo, arrivava, però, la notizia di Dybala. E lì non è che il convincimento iniziasse ad incrinarsi, ma subentrava la preoccupazione che qualcuno ce la stesse tirando. 
Proprio in quel momento, al sedicente ortopedico veniva chiesta ragione del perché avesse omesso, al momento dell’infortunio contro l’Helsinki, di effettuare quella sulle condizioni di Karsdorp. E la risposta, dopo partite a dispensare scienza medica, è stata tale (“Ma come facevo: da qua stavo troppo lontano pè capì quello che j’era successo”) da zittire chiunque e da inserirlo, insieme a Conti, Totti, De Rossi, Perrotta e gli altri, nell’Olimpo dei Campioni del Mondo che la Roma ha avuto nel corso della sua storia secolare.

L’attesa finiva. Le squadre erano schierate a centrocampo per iniziare questa partita che molto avrebbe dovuto dirci del nostro futuro. Prima, però, l’arbitro chiamava un minuto di silenzio. Perché si chiami “minuto di silenzio” rimane un mistero. Quelle parole, difatti, da troppi vengono lette come un “minuto di applausi” o come un “minuto che se po' fa caciara, ma poco poco”. Sta di fatto che quel minuto di silenzio, rispettato nella maniera in cui dovrebbe essere (in piedi ed in silenzio, per sessanta secondi, non per tre giorni di seguito), del minuto aveva tutto, del silenzio, viceversa, niente. 
Si iniziava giocando bene. Arrivava, poi, subito l’infortunio di Musso (a cui auguriamo, davvero, di tornare presto in campo), a cui faceva seguito, al momento dell’ingresso di Sportiello, una diffusa e negativa sensazione che avvolgeva la Tribuna (“Voi vedé che questo mo entra e fa er fenomeno?”).
La partita, poi, prendeva la piega che sappiamo. Plurime indicazioni arrivavano all’arbitro Chiffi, a spalti compatti, sull’uso da fare dei cartellini gialli e, va da sé, non tutte ortodosse. Si subiva il gol e chiaro, alle mie spalle, arrivava un “ho chiesto a mi cugino a casa: me dice che è na papera der portiere nostro”, lasciando facilmente capire, a tutti quelli che avevano avuto occhi per vedere quell’azione, e che avevano immediatamente compreso che nessuna responsabilità potesse essere ascritta a Rui Patricio, che il cugino in questione avesse evidentemente raccontato ai parenti di stare a casa a vedere la Roma, in realtà avendo deciso di trascorrere la domenica altrove, probabilmente con persona non nota ai congiunti più prossimi ed estranea al nucleo familiare.

Iniziava, quindi, il rosario dei gol mangiati, dei rigori non visti, dell’Atalanta, quella che è ora prima in campionato, a rincorrere i nostri per tutto il campo sperando di buttarli giù il prima possibile per non far finire l’azione e con Sportiello – quello che, poi, il fenomeno l’ha fatto sul serio – a perdere tempo come nemmeno le provinciali degli Anni Settanta. Si capiva chiaramente, a quel punto, che la partita la stavamo perdendo noi, che avremmo potuto e dovuto vincerla.
Finiva. E tutta la Tribuna aveva modo, a quel punto, di capire come Zaniolo fosse tornato lo Zaniolo che conosciamo (“Se ne trascina dietro ogni volta quattro cinque”), che la Roma fosse più forte di questa Atalanta (“se er pallone non lo butti dentro, poi esse pure più forte, ma quello, da solo, ‘n porta nun ce va”), che Smalling non sia “un” difensore ma “il” difensore (“da solo fa reparto, nun c’è storia”), che Zalewski sappia giocare la palla in verticale come pochi (“nun è er primo pallone che metta sui piedi der compagno solo davanti ar portiere”).    
Ora ci riposiamo per due settimane. Aspettando l’Inter di Inzaghi. Che non sta male, ma peggio. Loro dovranno vincere, noi pure. E se c’è una trasferta da fare, per ogni tifoso romanista, credo sia proprio questa.

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