Controvento

Gnente di Dublino

Perché i romanisti non chiedono favori. Non hanno bisogno di nessuno per affermare la propria identità e tendenzialmente provano una discreta antipatia per tutti

La Curva Sud giallorossa

La Curva Sud giallorossa (GETTY IMAGES)

PUBBLICATO DA Fabrizio Pastore
23 Maggio 2024 - 08:08

La cattedrale di San Patrizio, il castello, i parchi, i pub, la Guinness. Arpe, violini e ballate. Dublino mantiene il suo fascino, ma dal 9 maggio scorso esclusivamente come meta turistica. Di ogni altra implicazione riguardante la capitale irlandese, compresa ovviamente la sfida di ieri all’Aviva Stadium, ci interessa il giusto. Nonostante le innegabili conseguenze sulla prossima stagione in chiave romanista. Semplicemente perché chi tifa Roma non simpatizza per altre squadre, che ne possa ricavare convenienza o meno. Questione congenita. Forse ne avrebbe avuto molto più bisogno chi ha giocato lì ieri sera: meno di ottomila spettatori per la partita più importante della propria storia. Un colpo d’occhio poco esaltante per una finale, a dispetto dei maldestri tentativi televisivi di raccontare un appeal ambientale mai visto. Ma tant’è: pochi atalantini, pochi tedeschi. Per una sera poca passione fra la gente di Dublino.

Gnente di Dublino per noialtri. Perché i romanisti non chiedono favori. Non hanno bisogno di nessuno per affermare la propria identità. Tendenzialmente provano una discreta antipatia per tutti - peraltro ricambiata - e in questa condizione si trovano perfino a proprio agio. «Magno, bevo e tifo Roma» non è soltanto uno degli stendardi che da anni campeggia sugli spalti, ma anche e soprattutto una sintesi efficacissima dell’essenziale. L’archetipo delle tre funzioni vitali. Per noi c’è stata, c’è e ci sarà sempre soltanto la Roma. Un classico sempreverde. Uno di quei concetti che non ha bisogno di sembrare nuovo per piacerti. Non compete col presente, né con nipoti e pronipoti proiettati verso il futuro (soprattutto se il futuro è propendere per altri che abbiano colori differenti dal giallo e dal rosso). Se ne frega. Nessuna riverniciata, niente orpelli rimasterizzanti, nessun avvocato d’ufficio che ti spiega perché va apprezzato. Irrompe senza preavviso e lo scardina il presente, il tifo delegato, la simpatia a gettone.

Quel «C’è solo l’AS Roma» semplice e maestoso, ancorato alla storia da una coreografia leggendaria di un derby epico, si staglia lì. In ogni pensiero e sentimento. Ti cattura i sensi che ha già rapito decine di volte, sempre con lo stesso potere seduttivo immediato. Se te lo trovi davanti ti blocchi anche solo per un istante, metti il mondo circostante in pausa e ti abbandoni a quel generatore automatico di rimpianti e felicità. E ne abbiamo in quantità, degli uni e delle altre. Annusi, assaggi, canticchi i cori, muovi le labbra in sincro, e compi ogni azione da riflesso condizionato che ne tramandi il senso profondo. Così che possa continuare a essere considerato l’unico comandamento - quello che non induce in tentazione - e quindi non costretto da alcun mandato a confrontarsi con chi non potrà nemmeno mai sfiorare i suoi livelli. Non ha bisogno di restyling per piacerti. Semplicemente, ti piace. Ti ci riconosci in ogni singola sillaba. I veri piaceri non passano mai. Tornano sempre. Tutti. Tipo il gol di Mancini, che ora riaccende speranze. E popola gli incubi di quelli là.

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