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Ettore Viola: «La Roma un sogno. Papà mandò via Moggi. La cessione di Ancelotti andò così»

L'intervista. «Papà ha lavorato solo per acquistare il club Battè la concorrenza di una cordata. L’aveva presa un anno prima, ma scoprì un trucchetto»

11 Giugno 2018 - 07:23

Antico Circolo del volo. Fantastico. Cuore dei Parioli. Primo pomeriggio. Ambiente elegante e un po' snob, una vista su Roma che è uno spettacolo, veranda da svenire, piscina affollata, signore ingioiellate, professionisti in bermuda e infradito, camerieri che vanno e vengono, menu da applausi a scena aperta. A un tavolo chi scrive e l'avvocato Ettore Viola. Figlio di chi non avete bisogno che lo si scriva. Un appuntamento per ricordare quei magnifici anni ottanta, quella straordinaria avventura di una famiglia che ha cambiato la storia della nostra Roma. Non resta che cominciare.

Ettore, l'ingegnere, papà, come prese la Roma?
«La prese perché era lo scopo della sua vita. Per tutti noi, la Roma era una cosa di famiglia. Una volta ci disse che lui aveva lavorato avendo in testa solo una cosa: diventare il proprietario e il presidente della Roma. Quando la prese, è stato il coronamento di un sogno».

Come ve lo comunicò?
«Fece una riunione di famiglia, lui, mamma, i tre figli, io, Federica, Riccardo. Eravamo tutti tifosi veri. Pensa che papà nel 1952, quando avevo cinque anni, mi fece la tessera di socio vitalizio, lo sono ancora».

Obiettivo raggiunto, anno 1979.
«Errore».

Come errore?
«In realtà l'aveva già comprata l'anno precedente».

Non dubitiamo, ma la cronologia dei presidenti giallorossi dice Dino Viola 1979.
«Vero. Ma già dodici mesi prima era tutto fatto. Solo che era successo un imprevisto».

Quale?
«Papà era andato alla Banca di Roma per mettere le firme sull'acquisto. Era tutto definito. L'ad della Banca allora era il dottor Guidi, molto amico di Gaetano Anzalone. Successe che in quel momento papà scoprì che un terreno di Trigoria era ipotecato. Se ne andò molto contrariato e l'acquisto slittò di un anno».

Intanto Anzalone aveva comprato Roberto Pruzzo.
«Un acquisto in cui entrò pure l'ingegnere».

In che maniera?
«Con papà eravamo andati ad accompagnare mamma a Civitavecchia che doveva imbarcarsi per la Sardegna. Sul molo ci raggiunse Moggi».

Quel Moggi lì?
«Sì, Luciano che all'epoca lavorava alla Roma».

Che vi disse?
«Era convinto di parlare al prossimo presidente della Roma. Ci informò che il Genoa chiedeva più soldi per Pruzzo. Fu preso lo stesso, ma Filippi e Casagrande che papà voleva, non furono più acquistati».

Che difficoltà ci furono per acquistare la Roma?
«La concorrenza, la volevano in molti».

Concorrenza di chi?
«Soprattutto di una cordata formata da Genghini e Baldesi. Papà la prese perché dette le migliori garanzie economiche. E pure, mi piace dire, perché lui era un tifoso esagerato della Roma. Lo aveva dimostrato in molte occasioni, era stato vicepresidente per molto tempo, era stato un vicepresidente che metteva i soldi».

Ricordacene una.
«Era presidente del Palestrina, di fatto regalò Peccenini alla Roma».

Da presidente quale fu la prima cosa che fece?
«Prendere Nils Liedholm. Allo svedese, glielo aveva detto anni prima, "quando divento presidente, tu sarai il mio allenatore". Mantenne la promessa».

E la seconda?
«Mandare via Luciano Moggi».

Come ci riuscì?
«Lo convocò in ufficio e gli disse che aveva bisogno di un direttore sportivo che vivesse a Roma».

Moggi stava a Civitavecchia...
«E così gli rispose Moggi. Ma quello fu soltanto un pretesto. Semplicemente papà non voleva lavorarci insieme. Quindi le strade si separarono».

E cominciò la costruzione della Roma scudetto.
«I primi acquisti furono Turone e Benetti. Due giocatori che dovevano dare l'esempio. Solo che papà non era convinto di Turone».

Come si convinse?
«Liedholm gli disse che voleva giocare a zona, all'epoca una rivoluzione».

All'inizio non fu un successo.
«Per niente. Perdemmo diverse partite, qualcuna anche in maniera pesante. Ma Nils era convinto e dopo una sconfitta ci disse che saremmo diventati fortissimi».

Quale sconfitta?
«A Napoli. Avevamo giocato benissimo, ma il risultato diceva quattro a zero per loro».

Non si sbagliò.
«No, da quel giorno cambiò tutto».

Il primo grande colpo fu Carlo Ancelotti.
«Il primo colpo di mercato che portarono a rifare la Roma. Rimasero Agostino, Tancredi, Pruzzo».

Chi vi consigliò Ancelotti?
«Liedholm. La Roma di quegli anni la fecero papà e Nils, presidente e allenatore. Dovrebbe essere sempre così».

Ancelotti non costò poco per l'epoca.
«Furono necessari parecchi soldi considerando che era un giovane e giocava in serie C con il Parma. Con papà lo andammo a vedere in un campo di provincia, pioveva a dirotto, il terreno era ai limiti della praticabilità, ma quel ragazzino menava e le prendeva che era una bellezza. L'Inter lo aveva quasi presi, ci inserimmo di corsa e Carlo venne a Roma».

Un affare.
«Enorme. Come giocatore e come uomo. Fantastico. Aveva una famiglia meravigliosa alle spalle. Si instaurò un grande rapporto. Per farti capire: papà Ancelotti mandava sempre enormi forme di parmigiano al presidente».

E allora perché è stato venduto? Qualcuno disse che era rotto?
«In realtà le ginocchia di Carlo c'entrano relativamente. Il fatto è che io e Giorgio Perinetti fummo invitati da Galliani e Braida al Principe di Savoia di Milano. Si parlò di tutto, poi all'improvviso ci chiesero di Ancelotti, offrendoci cinque miliardi e mezzo di lire. Chiamai papà, mi disse di non venderlo».

Invece...
«Invece successe che Ancelotti era a Olbia. Berlusconi lo mandò a prendere con un volo privato. Lo portarono a Milano, ad attenderlo c'era anche Nardino Previdi. Gli fecero firmare un contratto di tre anni a 600 milioni a stagione più bonus, un'enormità per quei tempi. Sostenne anche le visite mediche».

Tutto questo senza che ci fosse un accordo con la Roma.
«Sì. Pensammo di dire no comunque. Solo che...».

Solo che?
«Papà convocò Carlo in segreto nella sede del Circo Massimo. Parlarono a lungo. Ancelotti gli chiese di lasciarlo andare, "presidente con le mie ginocchia questo contratto è la garanzia per la mia vecchiaia". Papà non riuscì a dirgli no».

Un brutto colpo.
«Per noi tifosi sì. Del resto la famiglia Viola viveva la Roma in maniera totale».

L'ingegnere seguiva sempre la squadra in trasferta partendo in macchina.
«Sempre in macchina. E c'è un motivo».

Quale?
«Non aveva piacere di prendere l'aereo. Prima della guerra, a Pontedera, era a bordo durante il collaudo di un aereo. Precipitarono. Si ruppe un braccio. Da quel momento solo auto o quasi».

L'equipaggio come era?
«Io, papà e mamma. L'ingegnere era il re degli autogrill».

Spiegaci.
«Spesso dietro avevamo le auto dei tifosi. Si formava una colonna. Quando mettevo la freccia, ci seguivano. E i tifosi cenavano con noi. Meraviglioso».

Continua...

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