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Amarcord Fiorentina-Roma, dalle lacrime di Giannini alla partita che non c'è

Lorenzo Latini rivive tre partite storiche ed indelebili per i tifosi giallorossi

05 Novembre 2017 - 13:00

Essere o non essere. Esserci o non esserci. A Firenze e contemporaneamente a Torino, a Roma, ovunque. Con la testa e il cuore divisi in più luoghi, presenti e altrove allo stesso tempo. È la storia di Fiorentina-Roma, una partita che ha vissuto altre partite dentro di sé. Il 27 marzo 1983, il 5 maggio 1996, il 19 ottobre 1997: date che riportano alla memoria altri stadi, altre curve, altri calciatori, altre squadre e altri uomini. Now -here che si tramuta in no -where: il "qui e ora" si fa "nessun luogo", o meglio ogni luogo. Come quella domenica pomeriggio di inizio primavera del 1983, con la Roma lanciata verso la gloria e verso la Storia che si fa male da sola. Ma si tratta di un dolore mitigato da quello che accade a Torino. Perché loro, quelli senza colori, inseguono l'ennesimo scudetto e giusto venti giorni prima sono venuti a vincere all'Olimpico. In rimonta, nell'arco di sette minuti, tanto che l'allora presidente bianconero Boniperti disse: «Chi si fa segnare due gol in sette minuti non merita di vincere il campionato». Classico stile Juve, l'arroganza che si maschera da mentalità vincente. Meglio così, perché quell'affermazione gli si ritorcerà contro.

Ma il 27 marzo 1983 c'è un momento in cui la Roma è sotto al Franchi, gol viola firmato da Massaro, e la Juventus sta vincendo il derby della Mole: al 9' la Fiorentina colpisce, al 15' Paolo Rossi approfitta di un'indecisione della difesa del Toro e porta in vantaggio la squadra allenata da Trapattoni. Dura tre minuti. Sì, proprio tre. Torneranno, in quel pomeriggio: quello sarà il giorno dei tre minuti. Intanto Pruzzo segna il pari e la Roma, che per 180 secondi circa si era ritrovata con un solo punto di vantaggio, va a +2. Al 17' del secondo tempo un rigore di Prohaska ci riporta avanti di tre lunghezze. Tre minuti e Platini raddoppia sul Toro. Al Franchi i tifosi giallorossi seguono con gli occhi la loro squadra e con le orecchie quello che accade a Torino. All'improvviso un brusìo, sussurrato eppure chiarissimo: "Ha segnato Dossena... Il Torino ha accorciato!". Sono passate da poco le 16.50, quando i romanisti sperimentano una trasmigrazione dell'anima, dal capoluogo toscano al capoluogo piemontese. E se è vero che tutti si trasferiscono al Comunale, quel teletrasporto di massa si concretizza nel momento in cui Bonesso fa 2-2. In un minuto e mezzo il Toro di Eugenio Bersellini è risalito dall'abisso e ora mira al Paradiso, proprio come la Roma. Sembra quasi che i granata abbiano in campo ventidue calciatori: con Sala, van de Korput e Zaccarelli stanno giocando anche Nela, Falcao e Conti. O è solo un'illusione, uno splendido sogno di quelli dai quali non vorresti mai essere svegliato? Il boato al Franchi sale come un tuono che viene da lontano e scoppia sul Franchi. Un tuono partito da Torino, dove Fortunato Torrisi – che si dice da bambino tifasse Roma – con una sforbiciata sul cross di van de Korput ha portato in vantaggio il Toro. È il 74', sono passati 220 secondi: 3 minuti e 40 secondi. Mauro Saglietti ci scriverà un libro, su quell'attimo di eternità che contribuirà a cucire un pezzo di tricolore sulla maglia giallorossa dopo quarantuno anni. Un autogol di Ancelotti regala il pari alla Fiorentina, ma quasi non conta, perché quattro punti di vantaggio a cinque giornate dal termine sono tantissimi, sono una distanza ben più grande, infinitamente più grande di quella che quel pomeriggio separa Firenze da Torino.

Esserci o non esserci, questo è il problema. È più nobile "soffrire nella mente i colpi di fionda e i dardi dell'oltraggiosa fortuna", oppure "prender armi contro un mare d'affanni e, opponendosi, por loro fine?". Ci ha provato, Peppe, ad opporsi a quegli affanni. Ha provato a sfidare quella fortuna crudele che si è divertita spesso con lui, che l'ha portato più di una volta ad un passo dal traguardo, ad un soffio dall'impresa: contro il Torino, contro l'Inter, contro lo Slavia Praga. Il 5 maggio 1996 Giannini sta guidando la Roma verso l'Europa quando, alla penultima giornata, si passa per il Franchi. Batistuta segna subito, la squadra di Mazzone si innervosisce e il capitano prende un giallo. Inizia ad imprecare, forse contro se stesso, o contro l'arbitro Pellegrino, forse contro quei dardi dell'oltraggiosa fortuna, gli stessi che lo hanno perseguitato in ognuna di quelle rimonte sfiorate e sfumate. Era diffidato e all'Olimpico, per l'ultima gara della stagione, sarà squalificato. Esserci o non esserci. Peppe guida la rimonta, Peppe guida la squadra alla vittoria con una delle più belle prestazioni della sua carriera: è la sua cinquecentesima presenza da professionista e la celebra con tre assist.

Non segna, eppure ci prova fino alla fine. Niente da fare. Firenze è così lontana da Roma, stavolta. Il saluto si consuma lì, sotto quello spicchio di Franchi colorato di giallorosso: lacrime e sudore si mischiano sulle guance di Peppe. "Maledetta fortuna, che m'hai portato a Firenze per togliermi Roma, la mia Roma. Nemmeno la soddisfazione di salutarli con un gol, m'hai voluto dare! ". Sembra dire questo, Giuseppe Giannini da Frattocchie, mentre piange a dirotto. Piangerà anche il suo ritratto in bianco e nero, esposto una settimana dopo allo Stadio Olimpico. Roma-Inter. Saluta anche Carlo Mazzone, quel giorno. Ma il ritratto di Peppe è un magone immenso, una presenza che ricorda un'assenza presente e futura: "Solo chi la ama e chi soffre per la maglia ha il diritto di onorarla... Per sempre, grazie capitano!". Lettere rosse come il sangue su tre striscioni bianchi. L'assenza si fa presenza, pochi mesi dopo, quando Giannini andrà allo Sturm Graz. Al Bundesstadion entra in campo con una sciarpa giallorossa legata stretta al collo. Come a voler dire: "Io sono con voi, sempre. Anche se non ci sono, anche se sono lontano, in realtà ci sono". Sembra quasi l'ovvia conclusione di un saluto che all'Olimpico non s'era potuto consumare a causa di un maledetto cartellino giallo di troppo. Ci sono, anche se non ci sono.

Esserci o non esserci, questo è il problema. Che poi, pensandoci bene, assenza e presenza sono forse due facce della stessa medaglia, due concetti contrari eppure complementari. A Firenze, il 19 ottobre 1997, ci sono tremila tifosi giallorossi al seguito di Totti e compagni. All'Olimpico sono cinquantamila, nonostante in campo non scenda nessuno. La partita è a Firenze fisicamente, a Roma virtualmente. Viene trasmessa sui maxischermi, perché si teme un afflusso eccessivo di sostenitori romanisti in Toscana, e il Prefetto ha deciso di aprire i cancelli dello stadio capitolino. "La partita che non c'è", scrivono molti giornali. Centomila occhi rivolti ai maxischermi, mica al rettangolo verde. In quel caldo pomeriggio da ottobrata romana, tra Roma e Firenze non ci sono 350 chilometri di distanza. Le due città sono vicine come lo erano state Firenze e Torino quel 27 marzo 1983, come lo erano state Firenze e Roma nel giorno del saluto al Principe. Quando Balbo si fa parare il rigore da Toldo, i cinquantamila dell'Olimpico imprecano esattamente alla stessa maniera dei tremila che sono al Franchi. Imprecano proprio come se quel tiro dal dischetto fosse avvenuto lì, anzi, qui. Qui e ora. Now-here. No-where. In nessun luogo, proprio perché in tutti i luoghi.

I cori sono gli stessi, le bandiere anche: la voglia di Roma non conosce distanze, né ostacoli. Tanto meno barriere. C'hanno provato, e abbiamo visto tutti come è andata a finire. Il salvataggio di Konsel su Batistuta viene salutato con un applauso liberatorio, anche se l'austriaco più amato dalle tifose è solo un volto fatto di giganteschi pixel, ma cosa cambia? Quell'applauso lo raggiunge a Firenze proprio come a Firenze arrivò quel tuono partito da Torino, dalla girata al volo di Torrisi, dai quei 3 minuti e 40 secondi in cui al Comunale in campo sembravano esserci anche Ancelotti, Pruzzo, Maldera, Prohaska e tutti gli altri, tifosi romanisti compresi. Come a Firenze il 5 maggio 1996, quando ad asciugare le lacrime di Giannini c'era un popolo intero – anche chi lo aveva criticato, chi lo aveva insultato e chi era rimasto indifferente alla sua vita in giallorosso -, come a Roma una settimana dopo per salutarlo. Esserci o non esserci, questo è il problema. Dissero che il 19 ottobre 1997 in cinquantamila andarono a vedere la Roma che non c'era. Sbagliato. Perché ovunque sono i suoi tifosi, lì è la Roma. Ovunque sventoli un vessillo giallorosso, lì è la Roma. Qui ed ora, in ogni luogo, sempre.

 

 

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