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Zampa: «Una storia d'amore di 34 anni. Hanno fatto una cosa allucinante con i diritti Tv»

'The voice' si racconta al Romanista. «Cominciai in Tribuna Tevere da solo, ho finito a Mediaset Per una vita ho ascoltato solo me stesso e il mio istinto»

25 Agosto 2018 - 08:16

Nello stordimento del passaggio di parte dei diritti televisivi del campionato di calcio da Mediaset a Dazn, molti tifosi/telespettatori sono rimasti orfani dei loro punti di riferimento, non solo per l'inedita piattaforma che costringe all'aggiornamento tecnologico coatto, ma anche per via di una serie di cantori che Mediaset prevedeva e Dazn evidentemente non più. Il primo, il più antico e, probabilmente con il milanista Carlo Pellegatti, anche il più amato, è il nostro Carlo Zampa. Che per il Romanista ha accettato di raccontare una lunga carriera con il microfono in mano terminata così, con un passaggio di diritti da un broadcaster, così si chiamano, a un altro. "The voice", così invece noi romanisti chiamiamo lui, risponde subito squillante e ci racconta una lunga storia che forse in pochi conoscono nei dettagli.

Una lunga storia. Anche d'amore, Carlo?
«D'amore, sicuro. Stiamo parlando di 34 anni di vita legati a una doppia passione. Per la Roma e per il microfono. Ho iniziato il primo anno di Eriksson, dopo la finale di Coppa dei Campioni persa. Era il 1984».

La prima telecronaca te la ricordi?
«Avellino-Roma 0-0, dagli studi di Roma. Per Rete oro. La prima all'Olimpico fu invece col Como, seconda giornata, 23 settembre 84».

Come nacque Carlo Zampa telecronista?
«Mi chiamò Alberto Mandolesi. Per Rete Oro l'anno prima le telecronache per la Roma le faceva Ilario Di Giovambattista. Alberto lo avevo conosciuto quando cominciò una trasmissione su Radio Lazio, la radio di Claudio Villa, la sede era a via Giulia. Villa lo chiamò per fare una trasmissione sportiva, io fui il suo primo ascoltatore, il primo a chiamarlo. Ogni lunedì lo chiamavo, diventammo amici».

Come capì che eri portato?
«Da abbonato in Tevere io ad ogni partita facevo le radiocronache da solo, portandomi un piccolo registratore. La gente intorno mi prendeva per matto, ma poi si abituò. Quando il lunedì chiamavo Alberto gli facevo sentire anche i miei gol registrati. E gli piacquero».

Urlando come sempre.
«Sì, ai gol. Mi mettevo in piedi tra Tevere e non numerata».

Oggi saresti daspato.
«Sicuro».

Quanti anni avevi ?
«Dunque... era l'80, forse l'81. Avevo 22-23 anni. Di sicuro non era l'82-‘83, l'anno dello scudetto, perché non andai mai allo stadio».

Cioè???
«A Marco, il mio nipotino, alla vigilia di quella stagione diagnosticarono un tumore. Io feci un voto: se fosse guarito, non sarei andato allo stadio per un anno. Feci l'abbonamento, ma non andai mai».

E Marco?
«Oggi è un bel ragazzone, anzi, un omone».

Eravamo alla chiamata di Mandolesi.
«Facevamo radiocronache per la tv. Trasmissioni seguitissime. In trasferta mi trovavo spesso con Caressa e Ugo Russo, erano loro ad alternarsi per Tele Roma 56».

Hai conservato reperti delle tue prime cronache?
«Poco e niente. Ma a dire il vero un ragazzo d'oro qualche tempo fa mi ha regalato uno scatolone di audiocassette con le mie cronache. Dovrò fare un lavorone, ma spero di poter mettere tutto sul mio sito».

A quel tempo lavoravi gratis, suppongo.
«Avevamo solo un modesto rimborso spese. Ma vuoi mettere l'emozione? Io la settimana prima dell'esordio non dormii un minuto. Si lavorava così, senza tessere professionali, solo tramite accrediti, per avere la linea bisognava fare una richiesta alla Sip, la mamma di Telecom, non esistevano telefonini, s'improvvisava».

Non andava mai tutto liscio.
«Era raro. A volte l'unico mezzo era il telefono a gettoni del bar. Così vedevo un pezzo di partita, mi precipitavo al telefono e facevo la cronaca, poi chiudevo, tornavo sugli spalti, vedevo e tornavo. Per 90 minuti così. A volte non ci facevano entrare. Il presidente del Pisa Anconetani, ad esempio, non ci concedeva mai l'accredito, chissà perché. Così pagavo 50.000 una signora che abitava nel palazzo di fronte e lei mi affittava il balcone».

Tu sei uno dei pochi per cui quest'hobby non è diventata una professione.
«Sì, una mia scelta, avevo un buon lavoro al Senato, volevo che rimanesse una passione».

La Roma come l'hai scelta?
«Papà giocava nella Mater con Fulvio Bernardini, trasmise questo amore a mio fratello e a me. Mio fratello è più grande di me di due anni, lavora in Banca d'Italia. Papà morì nel 2007, io mi presi un po' di riposo. Un anno».

Ti ascoltava?
«Capirai... Sempre».

Era molto critico?
«Generalmente era positivo, ma si preoccupava per le coronarie».

Anche per le corde vocali?
«Non so come mai, non ho mai avuto problemi alle corde, e senza fare mai esercizi specifici».

Un talento naturale. Che un giorno fu chiamato dalla Roma.
«Non finirò mai di dire grazie al presidente Franco Sensi. Io all'epoca lavoravo per Radio Incontro, allo stadio lo speaker era un tizio che il Coni metteva a disposizione dei due club. Con un problema: era laziale. Secondo Sensi distorceva volontariamente alcuni nomi dei giocatori della Roma. Sensi voleva creare un'atmosfera diversa allo stadio. Due colleghi, Renga e Ferretti del Messaggero, gli parlarono di me. Così mi chiamarono dall'ufficio che gestiva la fonia dell'Olimpico: "Sensi vuole uno speaker, te la senti?". "Di corsa". "Ci vediamo per una prova?". "Non serve". "Ma non abbiamo budget...". "Non voglio soldi, per la Roma lo faccio gratuitamente". Cominciai. Era il 14 febbraio 99».

San Valentino
«Non un giorno a caso... Era Roma-Sampdoria con lo sciopero in curva. Vincemmo 3-1, segnò Fabio Junior. Sulla panchina della Samp c'era Spalletti, sulla nostra Zeman, fece doppietta Paulo Sergio».

Come nacque il tuo stile? Gli annunci dei gol, la formazione, i soprannomi...
«Tutto sul momento, non mi sono mai preparato niente. E il presidente Sensi non mi ha mai messo paletti di alcun tipo. Quando mi incontrava mi diceva, che farai oggi? E io non sapevo rispondere, decidevo tutto al momento. Tranne una volta. Per quel Roma-Juventus».

La partita che ti costò il posto.
«Sì, possiamo dire così. Era il 2005, la partita la perdemmo, l'arbitro era Racalbuto, ricordi?».

Indimenticabile. Un fuoriclasse, nel suo genere.
«Mezz'ora prima dell'inizio l'episodio scatenante: io per abitudine preparavo le formazioni e le consegnavo alla regia dello stadio, poi andavo di corsa in tribuna per  curare la radiocronaca. Per avere le formazioni andavo nel baretto fuori dagli spogliatoi e aspettavo Tempestilli. Quel giorno mentre aspettavo chiacchieravo con Franco Baldini, finché non entrò Moggi, da una porticina. Borioso, arrogante, con i suoi guardaspalle. Ci passò davanti come se fosse il Papa, senza neanche guardarci. Baldini mi sorrise: «Carlo, fai qualcosa tu...». Ci pensai, ma non volevo danneggiare la Roma, né potevo citare Moggi. Così decisi di non nominare nella formazione juventina Emerson, Zebina e soprattutto Capello. Quando fu il suo turno rimasi in silenzio trenta secondi mentre sullo schermo c'era il suo nome. Lo stadio diventò una bolgia».

E poi?
«La Roma fu multata, mi assunsi ogni responsabilità, in radio dissi che sarei stato disposto a pagar io».

Forse nella Roma stava cambiando qualche equilibrio politico.
«Io volevo solo sbattere in faccia a Moggi la sua arroganza. Ignorando chi era andato da loro. Tutto sommato posso dire che funzionò».

Ma tu perdesti il posto.
«Non lo scoprii subito, solo a fine stagione. Andai in vacanza, tornai qualche giorno prima, per poter fare come al solito la presentazione, ma nessuno mi chiamava. Finché non lessi proprio sul Romanista che ero stato rimosso dall'incarico. A me nessuno disse mai nulla. Franco Sensi non l'ho mai rivisto. Fui mandato via anche da Roma Channel e, quel che è peggio, da quel momento diventai un nemico personale della famiglia Sensi. Non mi rivolsero più la parola».

E quando hai avuto la certezza che tutto dipendesse da quella "presentazione"?
«Seppi da altre persone che a Torino avevano chiesto la mia testa. Peccato, se me lo avessero spiegato lo avrei accettato. In molti in quegli anni furono mandati via dalla Roma così, senza neanche un grazie».

Hai continuato a fare cronache.
«Sì certo, cambiando radio ma continuando sempre. Poi durante l'anno sabbatico, 2007, mi chiamò Sandro Piccinini, Mediaset aveva deciso di fare per le squadre che considerava maggiori il doppio telecronista. Avevano sperimentato l'idea nella finale di Champions con Pellegatti, riscosse un successo enorme, così ho cominciato anche io, undici anni fa. E mi sono trovato benissimo. Nessuno mi ha mai fatto pressioni, né ha provato a cambiare qualcosa del mio stile. Come al solito, ho dato retta solo a me stesso fidandomi del mio istinto».

Finché Mediaset non ha perso i diritti.
«Si sapeva che sarebbe finita così, molti big erano già andati via. Ora Sky ha i suoi, Dazn anche, e non prevedono il doppio speaker. Ora penso che sia una storia finita».

Ti sei abbonato a Dazn?
«No, e non lo farò. Hanno fatto una cosa allucinante, i diritti venduti per fascia oraria è uno stratagemma solo per vendere il doppio abbonamento. La colpa però è della Lega e di chi gestisce il calcio. Ma leggi i nomi. Non ci si può stupire se rimaniamo sempre tanto indietro...».

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