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Ventiquattro anni di Roma, Alicicco si racconta: "Con Capello rapporti pessimi"

Lo storico medico sociale della Roma, nella seconda parte dell'intervista: "Io licenziato da un suo fax. Viola lo volevano cacciare, gliene fecero di tutti i colori"

01 Giugno 2018 - 11:13

Quando comincia a ricordare e raccontare, Ernesto Alicicco è un fiume in piena. Lo capisci che quegli anni con la Roma gli sono rimasti nel cuore. E da lì non ne usciranno mai.

Ernesto, eravamo rimasti a Voeller.

«Una persona vera, un giocatore come ne ho visti pochi».

Eppure quando arrivò, ci fu quel problema fisico che lo portò a pensare di tornare in Germania.

«Era andato a giocare con la nazionale contro la Svezia. Quando tornò a Trigoria, entrò negli spogliatoi tutto storto, aveva un forte dolore tra la schiena e l'inguine».

Cosa era successo?

«Guardando la partita della Germania, mi ero reso conto che si era fatto male. Aveva preso una forte ginocchiata sulla schiena».

Si pensò infatti che il problema fosse alla schiena.

«Gli facemmo una radiografia, ma non risultò niente. Cominciò un ciclo di massaggi. Glieli faceva quel fenomeno di Boldorini. Dopo un paio di giorni venne da me e mi disse che quando lo massaggiava sull'adduttore vedeva Rudi fare smorfie di dolore».

Cos'era?

«Andai subito dal tedesco. Gli toccai l'adduttore e sentii come una palletta. E allora gli domandai: Rudi in nazionale ti hanno fatto qualche infiltrazione?».

Cosa rispose?

«Sì, gliela avevano fatta. E la cosa era sfociata in un ascesso. Decidemmo subito di operarlo e dopo tornò il tedesco che vola».

Un altro giocatore con cui hai avuto un rapporto prolungato è stato Bruno Conti.

«Un grande. Ma passò anche un momento molto difficile».

Quando?

«Liedholm lo aveva convinto a trasferirsi a Roma, Bruno non voleva. Prese casa a via Cipro. Una notte mi chiamò la moglie, "vieni Ernesto, Bruno sta male, temo sia appendicite". Andai di corsa. Quando arrivai capii subito che il problema era stress da tensione nervosa. Al presidente gli dissi che sarebbe stato meglio farlo tornare a Nettuno, a casa sua. Si risolse tutto».

Si parlò molto dopo la cessione di Ancelotti che al presidente qualcuno avesse detto che il giocatore era rotto.

«Carlo per me è come un figlio. Si era rotto entrambi i crociati, era tornato più forte di prima. Una roccia. E per capirlo sarebbe stato sufficiente conoscere mamma e papà Ancelotti, due querce».

E allora perché Viola credette al fatto che fosse ormai un calciatore rotto?

«Perché qualcuno glielo suggerì. Mi ricordo che gli dissero che Ancelotti era come una bella statua ma rotta. E la Roma cedette uno dei calciatori più forti della sua storia».

Pruzzo invece era un altro di quei giocatori tendenti all'ipocondriaco?

«Il bomber era attento a tutto, solo che lui era una pila di fagioli, stava sempre a brontolare. Poi però in campo la buttava dentro».

Si è parlato spesso di doping nel calcio. Lo hai somministrato nella tua carriera?

«Sì».

Come sì?

«Ero bravissimo nel doping psicologico».

Che vuol dire?

«Far credere ai giocatori di dargli un farmaco senza darglielo».

Spiegaci.

«Ho un esempio perfetto. Ricordi la partita contro il Carl Zeiss Jena?».

Purtroppo sì.

«Erano dopati fino agli occhi. E i nostri giocatori se ne erano accorti. Tre anni dopo, in Coppa dei Campioni, il sorteggio ci mise davanti una squadra dell'allora Germania Est. Nello spogliatoio si cominciò a temere un'altra squadra dopata. Mi chiesero di fare qualcosa».

Cosa ti inventasti?

«Il doping psicologico. All'epoca mi divertivo facendo il pilota nei rally. In quelle corse si prendeva uno stimolante, il Villescon. Ne presi una confezione, la svuotai e la riempii con pasticche di Betotal, ne puoi prendere un quintale. Ai giocatori dissi che mi stavano facendo fare una cosa che non avrei voluto fare, aggiunsi che se avessero fatto la pipì un po' rossa non c'era da preoccuparsi, gli somministrai la pillola. Andammo in campo, vincemmo la partita. E sai la cosa più bella?».

Raccontacela.

«Il giorno dopo due giocatori vennero da me e mi dissero che la notte non avevano chiuso occhio per quel medicinale».

Ti va di parlare del malore di Manfredonia?

«Certo».

Quel giorno che successe a Bologna?

«Sincope da freddo».

Ma Manfredonia rischiò di morire?

«Vero. Ci furono una serie di concause. La prima è che quel giorno la temperatura era undici gradi sotto zero. Avevamo predisposto un'alimentazione con più zuccheri, solo che a Lionello i dolci non piacevano. In più non aveva fatto il riscaldamento, si era fermato a parlare con Giordano che giocava nel Bologna. Io temevo che si sarebbe strappato e per questo in campo con un occhio seguivo sempre lui».

E invece...

«Corner per il Bologna. Lo vidi che si avvicinava al palo e poi crollare. Mi buttai in campo. Quando arrivai era in arresto cardiaco. Per tenergli aperta la bocca usai il pollice, guarda (ce lo fa vedere ndr) ho ancora il segno sul dito. Giorgio Rossi, un amico e un fenomeno, preparò subito il necessario per intubarlo. Gli facemmo il massaggio cardiaco. Fu messo sulla barella ed ebbe un secondo arresto cardiaco. Altro massaggio e Lionello si riprese».

All'epoca si parlò di sostanze stupefacenti.

«Lo pensai subito. Tanto è vero che quando arrivammo in ospedale, pretesi che gli facessero tutte le analisi sugli stupefacenti. Risultò negativo. Al punto che sia Manfredonia che la Roma presero tutti i soldi dell'assicurazione».

Ci fu poi la vicenda doping di Carnevale, le fettucine di mamma Peruzzi, il lipopill.

«Viola fu sconvolto da quella vicenda, lì prese atto definitivamente che gli stavano facendo la guerra».

Chi?

«Diciamo così: il presidente era stato senatore nella Democrazia Cristiana, voluto da Giulio Andreotti. Ero presente alla cena in cui gli fu proposto di entrare in politica, lui non voleva, ma non poteva dire di no. Successe poi che il presidente non votò come da indicazione del partito. Non gliela perdonarono».

Ma che c'entra con il Lipopill?

«C'entra perché stavano cercando di metterlo in difficoltà. Quell'anno il doping era a sorteggio, la Roma usciva sempre, quattro partite di coppa Italia, le gare di campionato, con il Benfica in Coppa. Poi il Bari. Estratti Carnevale e Peruzzi.  Era perlomeno strano».

Risultarono positivi.

«Alla fentermina che è presente nelle pasticche che tolgono la fame, oggi non è più doping».

Ok, ma cosa era successo?

«Diciamo che qualcuno si era fatto mandare da Napoli alcune pasticche».

Qualcuno chi?

«Si dice il peccato non il peccatore ma non dovrebbe essere difficile capirlo».

Andiamo avanti.

«C'è poco da andare avanti. Quelle pasticche, senza che sapessi niente, furono distribuite nello spogliatoio, Carnevale e Peruzzi risultarono positivi».

Uno scandalo.

«Totale. Viola si ammalò per questo, io quasi, ricordo che mio figlio che giocava nello Spezia lo accoglievano al grido di drogato. Abbiamo passato momenti durissimi, pure con alcuni amici giornalisti che fui costretto a portare in tribunale. Ho vinto su tutto il fronte».

Dicevi che a Viola qualcuno gliela aveva promessa.

«I fatti mi diedero ragione».

Quali fatti?

«Viola voleva comprare Haessler. Mi mandò a un'amichevole della Germania per controllare le condizioni fisiche del giocatore. Solo che proprio in quei giorni a Viola arrivò un avviso di garanzia per evasione fiscale».

Come finì?

«Non era vero niente, ma Haessler andò alla Juventus».

E poi che altro?

«Anche nei miei confronti da Bari, sottolineo Bari, mi arrivò un avviso di garanzia per sostanze stupefacenti. Fu interrogato anche Ottavio Bianchi che disse la verità. Assolto su tutto il fronte».

Viola si era reso conto di essere accerchiato?

«All'inizio no, poi prese coscienza della situazione. Si moltiplicavano le voci di acquirenti per la Roma. Mi disse, "la potrei vendere a tutti, mai a Ciarrapico"».

La malattia di Viola fu un fulmine a ciel sereno.

«Sì. Mi chiamarono da Cortina. Mandai il professor Brunetti a visitarlo. Mi telefonò, mi disse che non c'era niente da fare. Un tumore all'intestino asintomatico ma devastante».

Te sei rimasto ancora dieci anni alla Roma.

«E ci sono stato bene, come sempre. Specie ai tempi di Mazzone che per me era come un fratello».

Non si può dire la stessa cosa di Fabio Capello.

«No, non si può dire. Vuoi sapere chi mi ha cacciato dalla Roma?».

Chi?

«Capello che voleva avere tutto sotto controllo, compreso il settore sanitario. Mi arrivò un fax da Marbella. Sai chi ha una villa a Marbella?».

Panucci?

«Fabio Capello».

Grazie, Professore.

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