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Da Pescara a Liverpool - Un anno di Monchi, il Re Mida del calcio mondiale

L’addio a casa, la fase di studio iniziale, l’emozione del 28 maggio, la scelta di Eusebio, le cessioni, la rincorsa a Mahrez, gli acquisti e il botto Schick

23 Aprile 2018 - 07:18

Un progetto «esaltante». Così Monchi immaginava la Roma poco prima di entrare in possesso del suo ufficio a Trigoria, accolto dopo un lungo corteggiamento, sbocciato in primavera, con soddisfazione dalla dirigenza giallorossa che lo aveva scelto in tempi non sospetti, praticamente quando era ormai certo l'addio di Sabatini. «Mi sono innamorato della Roma», ha detto durante la sua prima conferenza stampa, cercando di spiegare la trattativa iniziata parlando con Franco Baldini.

Un anno di Monchi

Domani sarà un anno di Monchi nella Capitale. Lo spagnolo, infatti, è arrivato il 24 aprile 2017, dopo quasi trent'anni e una lunga storia d'amore e di fedeltà con il Siviglia, nella città a cui ha dato tutto e tutto gli ha dato, dalla quale si era congedato con quello che può essere definito, con le dovute proporzioni, una specie di "28 maggio dei dirigenti". Una giornata che ha a che fare con quello che sarà il suo futuro nella Roma, quella dell'8 aprile 2017.

L'addio al Siviglia

Due ore prima del match contro il Deportivo, Monchi entra in campo con una maglia addosso, fortemente evocativa per tutto il popolo del Sánchez Pizjuán, la camiseta di Puerta (il terzino del Siviglia scomparso a soli 22 anni durante la partita Siviglia-Getafe, prima giornata della Liga, colpito da un arresto cardiaco). Un coro inneggia a lui, che è sempre stato dietro le quinte, lasciando ai calciatori oneri e onori: «Gracias por todo». Da lì i tifosi lo definiscono "leggenda eterna". Sì, per aver compiuto un capolavoro sportivo, tra campagne acquisti perfette, colpi azzeccati, cessioni remunerative. E trofei, tanti. Quelli che mancano a Roma da troppo tempo. Due Coppe Uefa, tre Europa League, una Supercoppa Europea, due Coppe del Re, una Supercoppa di Spagna. Tutto targato Monchi, il Re Mida del calcio mondiale (come recita la sua biografia a firma Daniel Pinilla). Un dirigente in grado di portare il suo club a contrastare il dominio delle multinazionali Barcellona e Real Madrid. Il tutto condito da un'enorme componente sentimentale. Anche per questo Ramón Rodríguez Verdejo, per tutti "Monchi", direttore sportivo del Siviglia da 17 anni e sevillista da 29, quando deve parlare ai suoi tifosi piange: «Ho avuto sempre un solo obiettivo, difendere con tutte le mie forze questo club. Me ne vado con una tristezza tremenda, me ne vado da casa mia. Se ne va il ds, ma rimane il socio 8154». Sempre e per sempre, dalla stessa parte.

Sevillista e romanista sensibile

Un profilo perfetto per ri-lanciare la Roma. Una scelta «complicata», lasciare casa propria, ma effettuata con le idee molto chiare: «Credete che io sia venuto qui per non vincere?». In giallorosso d'altra parte c'era un «grande margine di crescita» ad attenderlo. Perché qui «la base esiste: non ricominceremo da zero». Rilanciare il club e creare un feeling duraturo con la città più bella del mondo, dove batte sempre il sole e il cuore: sevillista ha qualcosa in comune con romanista. Monchi questo forse l'ha anche studiato, ma sicuramente l'ha capito. E presto. Perché è stata una primavera di emozioni forti, quella del 2017, in cui il ds ha dovuto affrontare prima di tutto la "separazione" niente meno che tra Totti e il rettangolo verde. Ma solo da lì, perché «Francesco lo voglio vicinissimo, se lo vorrà, e se riuscirò a imparare solo l'1% di quello che lui conosce della Roma mi potrò ritenere fortunato». Fatto colpo sul Capitano, è stata la volta del 28 maggio, quello vero. Le lacrime di una città (e del calcio mondiale) per l'addio al calcio di Totti. L'addio anch'esso inevitabile di Spalletti, promesso sposo dell'Inter. E qualcosa rimane, tra le pagine chiare e le pagine scure. La scelta di Di Francesco, che lo aveva impressionato con il Sassuolo, sulla quale Monchi è stato determinante. Un nuovo capitolo di Roma. Due figure centrali, Eusebio e Ramon, attorno alle quali ricostruire nel tempo la normalità romanista e un progetto tecnico ambizioso, aggressivo e identitario. E vincere, in tempi brevi, attraverso una nuova filosofia.

Le operazioni

L'inizio del suo primo calciomercato, al suono di slogan come «la Roma non ha un cartello su cui è scritto si vende, ha un cartello in cui c'è scritto si vince» o «nessuno è cedibile, nessuno è incedibile», è stato caratterizzato dalle cessioni. Quella milionaria di Salah, sì, quello che ci troveremo di fronte domani - ancora 24 aprile - da avversario in una semifinale "imprevista" di Champions. Che voleva andar via e la Roma ha colto l'occasione di vendere per equilibri di fair play finanziario. Quella di Paredes e Manolas allo Zenit, anzi, solo di Paredes, dopo il rifiuto di Manolas. E allora quella di Rüdiger al Chelsea, con in tasca pronto Hector Moreno, profilo internazionale ma errore riconosciuto del suo mercato (a gennaio comunque sanato con una piccola plusvalenza). La rincorsa di Godot Mahrez, con il "contorno" dello sfortunatissimo Karsdorp. Poi l'asse con il Sassuolo, con lo sfortunato e un po' misterioso Defrel e con la "recompra" di Pellegrini. L'usato sicuro dal mercato francese, con Gonalons. La testa di Kolarov. Il colpo alla Monchi, Cengiz Ünder. E il crack di mercato, tutto talento e blocchi da shock (forse adesso superati): Patrik Schick, per "vendicare" la telenovela con il Leicester per Mahrez.
Fino ad arrivare al tormentato (soprattutto per DiFra) gennaio, con le sirene inglesi ricacciate da e per Dzeko e la cessione di Emerson Palmieri al Chelsea. Con un finale di stagione con il fiato (e il giudizio definitivo della prima stagione) sospeso. Ma soprattutto ancora tutto da scrivere.

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