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Per la Roma

La guerra è finita

Si rischia di passare da “Erano meglio i Sensi” a “In fondo Pallotta...”. Invece è ora di gettare a terra i fucili: lasciamola ad altri questa voglia di azzuffarsi

La curva Sud, di Mancini

La curva Sud, di Mancini

31 Dicembre 2019 - 10:32

Quando cambia il presidente di una squadra di calcio c'è sempre un certo fermento nell'aria. Avete presente quando si insedia un nuovo governo? Ecco, una cosa del genere. Con la squadra dei ministri fotografata con l'abito della festa tutta presa a sorridere davanti ai flash con l'aria di chi è arrivato da Marte per cambiare il mondo. Mentre, intanto, l'opposizione si affretta a fare le pulci a chiunque abbia ricevuto un incarico per dimostrare che non è adatto a quel ruolo. In quei giorni vale tutto. Anzi, non vale niente.

Perché tanto ognuno sarà portato a giudicare non quello che vede ma quello che vorrà vedere basandosi sui suoi pregiudizi e sulle sue convinzioni arroccate sul proprio io: «Vedrai che...». E tutto per poter poi dire un bel «Lo avevo detto» sparato come un fuoco d'artificio con l'orgoglio di un Narciso innamorato di sé stesso più che del suo paese. Cosa? Ah, sì: una tristezza infinita.

Nulla però se lo confrontate con quello che, negli ultimi anni, sta accadendo nel mondo del calcio. Perché qui le cose, se possibile, vanno ancora peggio. Peggio soprattutto se considerate che di mezzo c'è, o almeno dovrebbe esserci, il sentimento… perché quello che tiene in vita questo sport è proprio l'amore che lega i tifosi alla squadra del cuore.
Esatto, cuore.

Perché la razionalità non c'entra nulla, spesso manco in mezzo al campo. E avoja a studiare la tattica… quello che spesso cambierà il corso di una partita sarà il gesto tecnico del singolo, la capacità di ognuno dei ventidue in campo di cambiare le carte in tavola. Senza considerare i «se» e i «ma», anche se a molti questa storia non piace, che arriveranno a stravolgere tutto, scrivendo la storia.

Riavvolgiamo il nastro perciò. Ricominciando. E arrivando, allora, al nocciolo della vicenda: Pallotta, Friedkin. AS ROMA. Cambio di proprietà, flash, sorrisi. Speranze, sogni e vendette, premesse e promesse, anticipazioni e silenzi, starnazzi e contratti, chiacchiere e distintivo. Tenetevi pronti: stiamo per vivere il periodo del vale tutto, quello in cui non vale niente. Perché questo sarà il tempo della corsa all'oro. Quello in cui tutti cercheranno qualcosa: un posto fisso, il consenso, un ruolo, una notizia.

Chi vedrà appagata almeno una delle sue aspirazioni racconterà la liberazione. Chi invece rimarrà deluso innescherà il meccanismo becero e polveroso che ha cibato l'astio di molti fino ad oggi, quelli dell'«Era meglio con i Sensi». E in pochi giorni, neanche fossero la signorina Silvani con il suo «Calboni era quel che era ma…», toccherà a Pallotta essere riabilitato perché, proprio come il geometra con i baffi, «era quel che era ma almeno con lui arrivavamo sempre sul podio».

Sapete che c'è? Che, invece, è arrivato il momento di gettare a terra i fucili, la guerra è finita. Anzi, mettiamola così: lasciamola agli altri la scellerata voglia di azzuffarsi. E noi tifosi, di questo cambio di proprietà, cerchiamo di prendere solo gli effetti positivi: la volontà di chi arriva di fare bene, la coscienza del suo capitale e la voglia, presumibile e auspicabile, di chiunque fa parte della ROMA – giocatori, staff tecnico, dirigenti, comunicazione – di dare, ancora di più, il meglio di loro stessi per dimostrarsi all'altezza della situazione e di obiettivi sempre più importanti. Mio nonno amava la ROMA e non ha avuto Pallotta come presidente mentre i bambini di oggi venerano questa squadra senza aver mai vissuto Dino Viola. Perché il segreto di questa storia non sarà mai il proprietario di casa ma la casa stessa.

E lì, se avvicinate bene l'orecchio, sentirete riecheggiare forte una canzone che, in un suo passaggio, dice: «Cambiano i giocatori e anche i presidenti ma noi saremo qua. Questa è Lupa che batte sul mio petto, la ROMA è il nostro amore». Tutto qui.

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